La breccia palestinese


Ali Rashid


"Il giorno prima le donne palestinesi erano andate a mani nude contro l’esercito egiziano che impediva gli ingressi e che ha aperto il fuoco su di loro". Inizia così il racconto di Ali Rashid sulla situazione mediorientale.


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La breccia palestinese

Il giorno prima le donne palestinesi erano andate a mani nude contro l'esercito egiziano che impediva gli ingressi e che ha aperto il fuoco su di loro. Ieri sette bombe hanno prodotto altrettante brecce che hanno interrotto l'altro Muro, quello della frontiera di Rafah con l'Egitto. La distruzione è cominciata nella notte ed è continuata in mattinata: un bulldozer guidato da palestinesi ha abbattuto una sezione disseminata di filo spinato, per allargare il varco e far passare anche auto, muli, carretti e carriole. E allora decine e decine di migliaia di palestinesi, donne, giovani, anziani, contadini, commercianti si sono riversati verso la «terra promessa», verso i paesi egiziani più vicini in cerca di cibo, gasolio, generi di prima necessità. Un mare di disperati. È sembrato un esodo. Invece no, sono tornati. Per resistere. Perché quelle brecce hanno rotto – fino a quando? – l'isolamento di Gaza. Da Ramallah l'Anp accusa Israele, il premier egiziano Mubarak è stato costretto a permettere l'ingresso dei palestinesi, proprio mentre al Cairo una protesta di massa a favore dei palestinesi si concludeva con 500 arresti.
Sono passati più di sei mesi da quando Israele ha dato il via all'assedio di Gaza che col tempo ha soffocato sempre di più la desolante Striscia, finché non è diventato embargo totale. Nella storia dell'occupazione che dura ormai da più di quaranta anni, Israele ha provato ogni tipo di repressione e punizione collettive, ma certo quello odierno, messo in atto da Barak, segretario del partito laburista e ministro della difesa, rappresenta una inasprimento qualitativo che rispecchia quello che col tempo sta diventando Israele. E insieme il grado di imbarbarimento nel quale il conflitto non risolto sta trascinando i due popoli. Fino alla guerra intestina tra palestinesi. Un inasprimento che si aggiunge a tutte le altre forme di annichilimento «tradizionali» che il governo israeliano usa in modo sistematico. Come le uccisioni mirate e non, i raid aerei sui civili, le distruzioni di case e dei campi agricoli, l'azzeramento dell'economia, la detenzione «amministrativa» per undicimila persone, lo sradicamento degli alberi, la colonizzazione selvaggia, il Muro. Fino al punto di trasformare tutta la Striscia di Gaza in un grande campo di concentramento, con il potere di vita e di morte assoluto quanto arbitrario su tutti e tutto. E ieri, dopo la disperata protesta di massa, il governo israeliano ha inasprito l'embargo cessando le forniture di energia.
Così sul corpo di Gaza dal 1967 si sono alternati diversi governi israeliani, di destra e di sinistra, ma la sofferenza è aumentata lo stesso. Anche da parte palestinese la resistenza ha assunto forme diverse a seconda delle condizioni, delle aspettative e delle forze politiche che l'hanno guidata. Dal Fronte popolare a fine anni Sessanta, all'Olp a partire dagli anni Settanta, passando per il governo dell'Autorità nazionale palestinese e di unità nazionale, ed infine al controllo del movimento islamico di Hamas dopo il suo colpo di stato. SEGUE A PAGINA 11
Le varie forma di lotta del popolo palestinese – dalla guerriglia alla lotta armata, dalla protesta di massa non armata, ad altre forme di terrorismo, spesso degenerate e controproducenti, alle iniziative di boicottaggio e azione non violenta – sono stati e sono tutti strumenti di liberazione. Certo, alcuni criticabili e condannabili. Ma, a secondo del grado di maturazione e qualità dei gruppi dirigenti, volevano anche esprimere la volontà di non arrendersi di fronte all'occupazione alla quale è sottoposto un intero popolo. Nessuna di queste forme però ha benché minimamente inciso sulla politica israeliana e sul suo crescente uso della violenza. Persino durante il processo di pace gli insediamenti sono triplicati e dopo il vertice di Annapolis la colonizzazione a Gerusalemme ha preso un'impennata. La dichiarazione di ieri del sindaco israeliano di Gerusalemme di dare il via a 7000 nuove «unità abitative ebraiche» nella città dimostra proprio l'insensibilità di Israele, a prescindere dal tipo di governo, per le sorti del popolo palestinese e per le sue legittime aspirazioni. Ieri il primo ministro dell'Anp Salam Fayyad dopo aver protestato per l'embargo a Gaza ha dichiarato: «Volete sapere qual è il problema più grosso? Mentre negoziamo sui punti principali del conflitto, Israele continua ad espandere gli insediamenti in Cisgiordania. Questo è il problema più grosso». Perché, forte di un sostegno incondizionato degli Stati Uniti e della alleanza occidentale con i quali condivide un progetto di dominio basato sulla forza, Israele si permette di fare ciò che vuole e di aggirare qualsiasi concetto di diritto internazionale e di legalità. L'incapacità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di esprimere una condanna o una semplice critica contro un crimine che si perpetua contro un intero popolo chiuso in gabbia, mostra l'Onu in balìa dell'ambasciatore statunitense che ricatta con la minaccia di usare il diritto di veto e illumina su quanto è profonda la crisi della causa del popolo palestinese. A prescindere della forma di lotta che esso pratica. A differenza di quanto avviene qui in Italia o in Occidente, dove l'informazione sulla tragedia dei palestinesi rappresenta un quadro sempre molto meno drammatico della condizione reale, nel mondo arabo e islamico milioni di donne e uomini vivono, in diretta satellitare ormai, gli avvenimenti di Gaza e del resto dei Territori occupati. Con una conseguente ondata di rabbia e di indignazione che sta facendo cadere l'ultimo velo di credibilità e dignità dei vari regimi arabi, alimentando un vasto movimento di protesta e di solidarietà. Spesso queste proteste rafforzano però i movimenti Islamici che acquistano ogni giorno maggiore credibilità e forza. A scapito dei regimi che hanno appena finito di ricevere il piazzista d'armi Bush che promette ancora nuove «guerre per la libertà» e non riesce a dare nemmeno seguito concreto alle sue stesse promesse sul diritto dei palestinesi ad avere un loro stato. Complessivamente l'attuale situazione della Palestina, scomparsa da tempo dalla carta geografica, dimostra la quasi impossibilità di trovare una soluzione al conflitto finché l'arbitro e l'avversario sono la stessa parte. Cosa devono fare ancora i palestinesi perché la comunità internazionale possa capire la profondità del loro disagio e del loro dramma? Perché non non si rassegnano a rinunciare ai diritti stabiliti dalla legalità internazionale, né si lasciano prendere dalla stanchezza e dalla brutalità. Non lo hanno fatto in questi sessanta anni di persecuzioni, perché dovrebbero farlo oggi? Questa situazione rafforza solo le forze più intransigenti e non solo in Palestina ma a livello regionale, con conseguenze nefaste e per tutti. Questo è il risultato della insensibilità israeliana duranti gli ultimi sessanta anni e della complicità e omertà di molti che sta mettendo la crisi in un vicolo cieco. Tutti lo sanno ma insistono a percorrere vie che perpetuano soluzioni improbabili. Solo ieri, dopo le brecce sul Muro verso la frontiera egiziana, quel popolo disperato ha accennato il sorriso ormai sconosciuto della festa. Abbattiamo tutti i muri, rendiamo la festa più lunga possibile.

Fonte: Il Manifesto

24 gennaio 2008 

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