Siria, il dramma dei rifugiati a migliaia passano il confine
Pietro Del Re
L’esodo verso la Turchia si è intensificato negli ultimi giorni. Dall’inizio del conflitto sono espatriate 150.000 persone e un altro milione e mezzo si sono spostate all’interno del Paese. Abbiamo visitato il campo di Bohsin, in territorio turco, incontrando la disperazione di chi vorrebbe soltanto tornare a casa
BAB AL-HAWA (Confine turco-siriano) – Preferiscono passare di notte, nascosti dall'oscurità, come fossero contrabbandieri o ladri di cavalli. Da qualche giorno, ne arrivano a frotte: decine, centinaia di persone che fuggono dai quartieri di Aleppo investiti dal fuoco dell'offensiva lealista. Secondo Hetin Cobatir, portavoce dell'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ad Ankara, i siriani scappati in Turchia negli ultimi sedici mesi sono già 44.200, e sono tutti ospitati in una decina di campi costruiti e amministrati dalla Mezzaluna rossa. "Ma non se ne sono mai visti arrivare tanti come nell'ultima settimana", spiega Cobatir.
Al valico turco-siriano di Bab al-Hawa, chiuso giovedì scorso al traffico commerciale, ma non ai disperati in fuga dall'artiglieria e dai razzi delle forze del presidente siriano Bashar al Assad, incontriamo gli ultimi arrivati, due uomini e una famiglia. Li incrociamo mentre attraversano un cancello di ferro automatizzato, in cui i doganieri turchi hanno lasciano aperto uno spiraglio di una ventina di centimetri appena. Il capofamiglia sembra ancora impaurito per il viaggio che l'ha portato fin qui. E' nervoso, non vuole essere fotografato. "Abbiamo impiegato meno di un'ora per venire da Aleppo", dice. "La strada è ormai tutta nelle mani degli insorti". L'auto che li ha condotti oltreconfine è carica di valigie, bauli, scatoloni, che l'uomo fatica a scaricare. "Ho preso tutto ciò che ho potuto, perché quando tornerò in Siria non so se casa mia sarà ancora in piedi. Quando siamo partiti l'aviazione del regime aveva già cominciato a bersagliare il mio quartiere con elicotteri e Mig, e diverse case erano già in fiamme. Ho preferito fuggire piuttosto che morire sotto le bombe".
Dall'inizio del conflitto siriano, 150.000 persone hanno già lasciato il Paese verso le nazioni vicine: Turchia, appunto, ma anche Giordania, Iraq e Libano. Mentre all'interno della Siria se ne sono spostate un milione e mezzo. Alcuni siriani sono in Turchia da più di un anno. Il campo di Bohsin, una trentina di chilometri da Antiochia, ne ospita 1.800 circa, dei quali 730 anziani e 350 bambini. Per arrivarci abbiamo costeggiato un altro campo profughi, sorvegliato da soldati turchi e protetto da muri di cemento e filo spinato: è quello dei generali e di altri ufficiali che negli ultimi mesi hanno disertato, sempre più numerosi, l'esercito del regime di Damasco. Tra loro c'è anche il colonnello Riyad al-Asad, che sotto la sua tenda bianca da profugo comanda il Free Syrian Army, ossia le brigate armate dell'opposizione di fronte alle quali le forze di sicurezza lealiste potrebbero un giorno capitolare.
Il campo di Bohsin è decisamente meno controllato. Una giovane recluta turca disarmata mi intercetta mentre scatto foto a dei bimbi siriani che fanno il bagno vicino alle loro tende nel budello di un acquedotto d'irrigazione. Accetta di accompagnarmi all'interno del campo, dove a mitigare la sofferenza dei profughi ci sono la professionalità della Mezzaluna turca e i tanti soldi stanziati da Ankara. Le tende sono nuove, resistenti, e molte strutture comuni sono perfino dotate di aria condizionata. Non mi viene però concesso di parlare con i rifugiati, perché non ho con me uno speciale permesso che rilascia il municipio di Antiochia. Tuttavia, gli sguardi delle donne e degli uomini che incrocio sono abbastanza eloquenti ed esprimono ciò che provano tutti gli sfollati del pianeta: il bisogno di evadere da questa residenza coatta e il desiderio di rientrare a casa loro.
Mentre torniamo verso la macchina, vediamo un ragazzo uscire da un buco nella rete che circonda il campo. Si chiama Alì, ha vent'anni e dice di voler tornare in Siria. Per combattere. Lo carichiamo con noi per accompagnarlo verso il confine. Alì mastica poche parole d'inglese, ma ci tiene a spiegarci l'entusiasmo con cui affronta la sua missione. A un certo punto, come per avvalorare quanto dice, dalla busta di plastica in cui è racchiuso ogni suo bene tira fuori una vecchia rivoltella cinese. A un paio di chilometri dalla frontiera di Bab al-Hawa chiede di fermarci. Poi, dopo averci ringraziato, salta giù dalla macchina e comincia a correre a perdifiato verso una collina arsa dal sole, perché sa che i doganieri turchi potrebbero fermarlo o i cecchini di Assad centrarlo con una pallottola. Dall'altra parte della frontiera l'aspetta una macchina del Free Syrian Army. Per portarlo a liberare la sua terra e forse a morire.
Fonte: www.repubblica.it
28 luglio 2012