Migranti (neri) go home


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Ancora ignota la mano che ha appiccato il fuoco all’appartamento in cui vivevano dieci eritrei. Alcuni intossicati, tutti salvati dai vigili del fuoco. Per nulla ignoto, invece, è il brodo di coltura che ha armato il piromane.


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Migranti (neri) go home

Stanotte ignoti hanno dato fuoco a un appartamento, a poche centinaia di metri da qui. Jaffa street, il cuore commerciale di Gerusalemme ovest (e non solo ovest). Jaffa street è ancora un mix di negozi e vecchie casette, e man mano che ci si avvicina al mercato di Mahane Yehuda la presenza dei migranti aumenta. Le badanti filippine, i migranti africani, tutti dentro appartamenti che condividono e in cui, spesso, è la temuta polizia dell’immigrazione a far visita, all’alba.

Ancora ignota, dunque, la mano che ha appiccato il fuoco all’appartamento in cui vivevano dieci eritrei. Alcuni intossicati, tutti salvati dai vigili del fuoco. Per nulla ignoto, invece, è il brodo di coltura che ha armato il piromane. Razzismo puro e duro, condensato nella frase in ebraico scritta con lo spray sulla pietra attorno alla porta. “Andatevene via da questo quartiere”.

Non è la prima delle scritte razziste in ebraico sui muri di Gerusalemme. Uno degli ultimi episodi ha riguardato una chiesa. Qui, invece, il bersaglio sono i migranti, quelli africani, in una escalation che ha interessato, nelle ultime settimane, la grande periferia meridionale di Tel Aviv, con manifestazioni xenofobe contro quelli che qui vengono definiti infiltrati.

La situazione comincia a diventare pesante, per i circa 60 mila migranti provenienti da diversi paesi, compresi Etiopia, Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Costa d’Avorio, Ghana. Una percentuale alta – 25mila – ha chiesto o potrebbe chiedere asilo politico, visto che proviene da Eritrea, Somalia, e Sudan. Per gli altri, aumenta la pressione per l’espulsione e la deportazione nei paesi di provenienza. Una pressione che in Italia si conosce bene, e che dunque non fa di Israele un paese speciale.

 

Certo, Israele ha le sue specificità. I migranti sono aumentati da quando – seconda intifada – è diminuita per questioni di sicurezza la manodopera palestinese, sostituita, per esempio nei campi lungo il confine con Gaza, da manovalanza thailandese o comunque asiatica. Israele, insomma, ha bisogno di manodopera straniera come succede da noi, e come accade da noi la frizione aumenta laddove è maggiore il disagio sociale (israeliano) e la concentrazione (fisica) dei migranti. In soldoni: la massima parte dei migranti africani è concentrata nella periferia di Tel Aviv. Circa 50mila migranti in una città di 400mila, che non è tutta lo stereotipo della Tel Aviv accogliente che riempie da tempo le copertine delle nostre riviste di viaggi. Tel Aviv è anche la sua periferia meridionale, sono anche le ampie, anonime zone residenziali dove vive la comunità sefardita da decenni, e quella russa da qualche anno di meno. Sono le periferie dove si concentra il consenso del Likud (sefarditi) e di Yisrael Beitenu (russi). Sono le periferie dove c’è anche microcriminalità, e disagio sociale.

Abbastanza prevedibile, quindi, che si potessero scatenare nelle ultime settimane le spinte xenofobe nei confronti dei migranti africani: una questione, quella degli arrivi dall’Africa, che non è di oggi, e che anzi torna di volta in volta sulle prime pagine dei giornali israeliani da anni e anni. Il problema è che la xenofobia, il razzismo non è una piaga che emerge solo contro un bersaglio (i migranti africani). Gli scontri nelle città israeliane si sono verificati, negli scorsi anni, soprattutto tra israeliani e palestinesi, a San Giovanni d’Acri e Safed, per esempio. Ma anche a Gerusalemme, dentro il mall più importante della città, a Malcha.

Solo osservando il fenomeno del razzismo dentro la società israeliana come un fenomeno complesso, che comprende anche il conflitto, sarà possibile occuparsene per debellarlo.

Fonte: http://invisiblearabs.com
5 Giugno 2012

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