L’Europa senza ruolo politico


Domenico Giovinazzo


Intervista a Luisa Morgantini sulle migliori strategie dell’Anp per cercare di ricomporre le fratture interne, su come poter ricostruire il processo di pace in Medio Oriente, e sul ruolo dell’Italia e dell’Europa in questo percorso.


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L'Europa senza ruolo politico

Dopo quasi due settimane di incontri, conferenze, manifestazioni e dibattiti in giro per la Palestina e Israele con al seguito una nutrita delegazione di Assopace, Luisa Morgantini descrive il terreno sul quale dovrebbe attecchire il processo di pace ripartito da Annapolis lo scorso novembre. Parla della situazione «tragica» della Striscia di Gaza, dove «gruppi estremisti continuano a tirare missili su Sderot, completamente inutili perché pur non colpendo nessuno danno adito agli israeliani di dire che i palestinesi violano la Road map»; racconta degli sforzi che il governo di Salam Fayyad sta facendo per «riportare ordine e garantire la sicurezza in Cisgiordania»; e constata amaramente come dall'altra parte Israele faccia «guerra alla pace», col ministro della Difesa Barak che «continua a dire che non muoverà neanche un check point, e seguita a bombardare e tartassare la Striscia di Gaza, a invadere le città della West Bank arrestando, ferendo e uccidendo palestinesi: con queste azioni, invece di rafforzare una leadership ragionevole e non violenta – quella di Mahamud Abbas e Salam Fayyad – come Israele dice di voler fare, in realtà si mina qualsiasi possibilità di controllo da parte dell'Autorità palestinese».

Oltre alle trattative con Tel Aviv, l'Anp deve cercare di ricomporre le fratture interne. Quali sono gli spazi di manovra?
Serve una estrema chiarezza nel sostenere la nascita di uno Stato palestinese nei confini del '67 – anche se su questo è da vedere cosa succederà nelle trattative – e soprattutto nel rinunciare alla lotta armata. Non discuto il diritto di un popolo occupato militarmente a difendersi anche con le armi: è sancito dalla Convenzione di Ginevra. Ma la lotta armata palestinese fino ad ora ha portato a una sconfitta, e credo che non abbia più prospettive. Questo l'Anp lo ha capito benissimo. Purtroppo sono altre forze a non comprenderlo, non solo Hamas ma anche altri tra cui l'Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) che è ancora titubante sulla scelta della resistenza non armata. Il margine di manovra in cui deve muoversi l'Anp è quello di riuscire a convincere tutte le forze politiche che l'unica strada per la pace è la lotta popolare non violenta, come quella dei comitati di Bil'in contro il muro ad esempio. Bisogna affiancare al negoziato una ripresa della partecipazione popolare attraverso azioni dirette e pratiche contro l'espansione degli insediamenti e contro il muro.

Nel processo di pace servono però anche segnali concreti da parte di Israele…
Certo. E qui deve intervenire la comunità internazionale. Unione europea, Stati Uniti e Onu devono dire a Israele che se vuole la pace deve porre fine all'occupazione, alla crescita degli insediamenti, alla costruzione del muro dell'apartheid, all'assedio di Gaza, alle incursioni nelle città della West Bank, e lasciare che sia veramente l'Anp a riportare l'ordine.

L'Ue finora non ha giocato un ruolo centrale.
E' vero, è stata tagliata completamente fuori da Annapolis, dove non ha avuto nessun ruolo politico. Abbiamo avuto un ruolo nella conferenza dei donatori di Parigi, ma quello politico non è esistente, perché è stato affidato agli Usa il compito di monitorare i risultati della dichiarazione – perché non si può chiamarlo accordo – di Annapolis. Sharon diceva che gli europei sono dei pagatori ma non dei giocatori: è tempo che anche noi iniziamo a giocare attivamente, pretendendo un'agenda politica che preveda davvero la fine dell'occupazione israeliana.

In Palestina e in Israele abbiamo incontrato associazioni e movimenti non violenti, i quali propongono forme interessanti di resistenza contro l'occupazione. Purtroppo la sensazione è che siano marginali all'interno di entrambe le società…
Bisogna fare una distinzione. E' vero che le forze israeliane attive contro l'occupazione militare, con un punto di vista radicale e molto critico nei confronti del loro Stato, non sono tantissime. In Palestina invece non è esattamente così, perché i movimenti sono più numerosi e riescono ad avere anche una sponda politica. Se consideriamo lo stesso Fatah, è una forza composita al cui interno trovano spazio i comitati popolari di Bil'in o l'associazione dei Combatants for peace. Quasi tutte le componenti di Fatah sono ormai contro la lotta armata. Sono marginali invece le forze della sinistra. E' piccola l'area che attraversa i partiti come il Fida, il Partito del popolo o Al Mubàdara. Però sta crescendo, e può farlo ancor di più se riesce a intercettare quella grossa fetta di palestinesi che è scontenta della politica perché ha visto la vita peggiorare in tutti questi anni, con la limitazione della libertà di movimento, la demolizione delle case, i prigionieri politici che non vengono mai liberati.

Come si può, dall'Europa e dall'Italia, aiutare questi movimenti a crescere?
E' necessario dare loro voce e visibilità. E bisogna aiutarli anche finanziariamente. Si deve far conoscere la loro realtà in Europa e far capire che va sostenuta con progetti concreti e non soltanto con aiuti politici, perché la presenza di queste voci fa sperare che sia possibile una pace giusta.

Fonte: La Rinascita della Sinistra

16 Gennaio 2008

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