Se torna tra noi l’incubo razzista


Francesco Paolo Casavola


“Oggi, in Europa, lasciare che sia proprio la xenofobia ad accendere questa violenza collettiva è davvero inaccettabile”, l’editoriale di Francesco Paolo Casavola su “Il Messaggero”.


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Se torna tra noi l'incubo razzista

Il campo rom bruciato a Torino da una folle che intendeva punire una pretesa violenza sessuale subita da una ragazza ad opera di due zingari, e poi smentita dalla interessata, è un evento carico di segni dei nostri pessimi tempi.
In primo luogo l’autoattribuzione di funzioni di giustizia da parte di una folla di qualche centinaio di persone. È immaginabile che nessuna di esse fosse consapevole di stare mettendo la marcia indietro alla macchina del tempo, dentro la quale si svolge la storia delle comunità umane. Alcune migliaia di anni fa la prima preoccupazione di una qualsiasi aggregazione di esseri umani fu quella di impedire lo scatenamento della violenza al suo interno soprattutto con la motivazione della giustizia privata. Lo Stato nasce proprio per conservare la pace, oltre che per difendersi con la guerra dai nemici esterni.
Fine della giurisdizione fu appunto quello di conservare la convivenza pacifica dell’aggregato sociale. Certo, il tempo nelle società umane non scorre sempre nella direzione del progresso. Molti di noi ricorderanno scene di film western, in cui folle inferocite procedevano al linciaggio, cioè all’esecuzione sommaria di presunti colpevoli. Era giustizia? No, era esplosione di istinti ferini, oscillante tra vendetta e paura. Quella pratica toccò il culmine in tempi relativamente vicini, negli Stati Uniti d’America, tra XVIII e XX secolo, seminando migliaia e migliaia di vittime, talora del tutto innocenti dei delitti a loro attribuiti. Paura della diffusione della criminalità quando non si disponesse di adeguata risposta di giustizia e polizia da parte dei poteri legali, ma anche necessità di placare le popolazioni assetate di vendetta.
Già negli Stati americani con componenti di colore il linciaggio fu istigato dalla diversità di razza. Ma oggi, in Europa, lasciare che sia proprio la xenofobia ad accendere questa violenza collettiva è davvero inaccettabile. Nel vecchio continente l’ultima mostruosa manifestazione di xenofobia è stata la Shoah, con sei milioni di ebrei trucidati nelle camere a gas. Dovremmo sentircene per sempre purificati rispetto ad ogni pulsione di intolleranza razziale. Invece la xenofobia riemerge, sia pure in piccole scale, nei confronti di immigrati, di stranieri, in particolare di quelli nomadi o apolidi. Nei confronti dei rom o degli zingari, eredità di antiche leggende sulla loro inclinazione a ruberie e violenze costruiscono sagome da bersaglio sopra provvisori e degradati abituri delle loro famiglie.
Si è sentito dire da taluno degli assaltatori torinesi che non era il caso di distinguere tra adulti e bambini rom. Indignarsi dei cittadini della civilissima Torino , quasi si trattasse di meridionali? Non sia mai. E già qui trapela un filo di una xenofobia endonazionale, che andrebbe con decisione spezzato. Ma non si può tacere sulla insufficienza di una educazione alla cittadinanza che ci faccia edotti delle funzioni pubbliche spettanti alle istituzioni e del divieto di appropriarsene da parte dei privati. Nonché di una educazione a comportamenti di umanità, che spetta alle famiglie, alla scuola, alla Chiesa. Come possiamo ospitare cittadini o stranieri di diverse etnie se siamo spinti a discriminarli e ad assaltarli? Proprio l’Italia che vanta una cultura aperta alla intera famiglia umana non dovrebbe trascurare questo suono sulla grande tastiera della educazione, che è quello della comune natura, della comune dignità di tutti gli esseri umani, per quanto marcate possano essere e loro differenze di pelle, di lingua, di costumi, di nazionalità. Quanto alla Chiesa, che su questa missione di fraternità universale fonda il messaggio evangelico, occorre una mobilitazione delle sue strutture capillari, della sue associazioni di laici, perché la visibilità della cosiddetta nazione cattolica del nostro Paese è su questo terreno che deve edificarsi, piuttosto che su tavoli di negoziazione o di contese.

Fonte: Il Messaggero

12 dicembre 2011

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