L’UNESCO, la Palestina e la Storia


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Cambierà – per Israele e Palestina – anche la narrativa, come dicono gli inglesi. L’ammissione della Palestina nell’UNESCO non è un fatto simbolico. Perché la cultura è politica, l’archeologia altrettanto. E così anche il modo di raccontare la Storia.


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L'UNESCO, la Palestina e la Storia

Non è solo un atto simbolico, quello compiuto ieri dall’Assemblea generale dell’UNESCO. Lo sanno tutti i protagonisti, da Israele – che l’ha definita, in maniera ridondante, come una “tragedia” – agli Stati Uniti, che hanno già  sospeso, come minacciato, i fondi che Washington versa nelle casse dell’UNESCO. La Palestina membro dell’organizzazione che ha sede a Parigi, e che si occupa di scienza, educazione e cultura, significa cambiare – e molto – gli stessi parametri del conflitto. Cambiare anche il modo di raccontare il passato di questo posto così complesso e controverso, spesso letto attraverso una sola lente. Ora la Storia si fa di nuovo usando diverse narrative. E può essere solo un bene, perché la Storia è sempre complessa. Mai un senso unico.

Anzitutto, è lo stesso peso di una non ben precisata Palestina a cambiare, a livello internazionale. Israele e gli Stati Uniti appaiono sempre più isolati, nella posizione tetragona di vincolare il riconoscimento dello Stato di Palestina al processo negoziale tra i due contendenti. A guardare la lista dei 14 paesi che ieri hanno votato contro (rispetto ai 107 a favore e ai 52 astenuti, noi italiani compresi), il senso di isolamento è evidente. Assieme a Israele e Stati Uniti non hanno votato solo Australia, Canada, Olanda, Repubblica Ceca, Svezia, ma anche Vanuatu, Samoa, Isole Salomone, Panama, tra gli altri. Il resto del mondo – comprese potenze di rango come Cina, India, Brasile, Russia, Sudafrica – erano sul fronte opposto. E la minaccia dei soldi, ormai, non funziona più. Soprattutto in un momento come questo, in cui sono quegli altri paesi che forse ci risolveranno le nostre crisi molto occidentali.

A prescindere dal sostegno internazionale, è comunque lo stesso scenario – per così dire – interno, a cambiare. E in particolare cambia su due nodi fondamentali: Gerusalemme e le colonie. Non cambierà subito, certo. Prima la Palestina deve accettare tutto ciò che comporta essere parte dell’UNESCO. Già solo a pensare quello che potrebbe succedere, su alcuni terreni molto delicati, si comprende però che sul terreno la situazione sarà diversa da prima. Qualche esempio. Intanto, anche i siti palestinesi avranno un ‘peso nel mondo’. Sinora, considerarli parte del patrimonio dell’umanità non era stato possibile, proprio perché la Palestina non è uno Stato, e non faceva parte dell’UNESCO. E se i siti palestinesi avranno un ‘peso nel mondo’, sarà la stessa Palestina a non essere più qualcosa di indistinto, senza Storia, senza cultura, senza dignità.

Sono siti di tutto rispetto. Non solo la Chiesa della Natività di Betlemme, cuore della cristianità, che lo stesso UNESCO aveva dovuto rifiutare di inserire nella lista del patrimonio mondiale, lo scorso maggio, proprio perché la Palestina – formalmente – non esiste. C’è Gerico, con tutto ciò che Gerico contiene, non solo le tracce delle sue migliaia di anni di storia, ma l’epoca bizantina, il ruolo nella cristianità. E poi Nablus, la sua città vecchia, pari come valore artistico a quella di Gerusalemme. E poi – e qui entriamo nella carne viva del conflitto – Hebron. Al Khalil, per i palestinesi.

Chi ha visitato Hebron/Al Khalil sa e conosce la tristezza di quella città, la desolazione della sua città vecchia, i tornelli attraversi i quali bisogna passare per andare alla Tomba dei Patriarchi, alla Moschea Ibrahimi, in uno dei templi che dovrebbe essere condiviso, vista la presenza di Abramo. E che invece è il simbolo stesso del conflitto. Hebron/Al Khalil non è nella lista del patrimonio culturale dell’umanità, e se la sua candidatura fosse riconosciuta, lo stesso conflitto – nel cuore della Cigiordania – assumerebbe un altro aspetto. Soprattutto vista la presenza dei soldati e dei coloni israeliani nel cuore della città vecchia.

Coloni, colonie. L’ingresso della Palestina nell’UNESCO tocca anche il nodo delle colonie, e non solo a Hebron. Un altro esempio. Battir, un paesino palestinese che pochi mesi fa ha ricevuto un premio importante, il Melina Mercouri, per i meravigliosi terrazzamenti, con i muretti a secco. È tra Gerusalemme e Betlemme, ed è a rischio perché su Battir e sugli altri villaggi insistono colonie come Har Gilo, che spacca l’unità del territorio da Betlemme, verso Beit Jallah, il Cremisan, Walajeh. Quei terrazzamenti che parlano di una tradizione e di una cura della terra millenarie sono a rischio da anni, per l’espansione delle colonie e per il Muro di Separazione che si continua a costruire, ogni giorno. Che succederà se la Palestina presenterà la candidatura dei terrazzamenti di Battir, così come – per esempio – la linea ferroviaria che è derivazione della famosa Hejaz Railway che portava i pellegrini ottomani alla Mecca, e che percorre la parte nord della Cisgiordania? Una delle stazioni, sotto l’antica Sebastia, è il cuore della prima colonia, Elon Moreh, che il movimento di Gush Emunim impose al governo di Israele nel 1974, e ad approvarne la nascita fu Shimon Peres, allora ministro della difesa. Che succederebbe, se una linea ferroviaria importante, dal punto di vista storico-culturale, entrasse nel patrimonio dell’umanità?

E infine Gerusalemme. La Città Vecchia è inserita nel patrimonio dell’umanità perché la propose la Giordania, che esercita ancora il suo potere sui luoghi santi musulmani. Fuori dalle antiche Mura di Solimano, però, c’è molto, moltissimo altro, tra siti e monumenti, che potrebbe ambire a far parte della lista. Persino la Città di David, controverso sito nel cuore di Silwan, a est della Linea Verde, controllato da un’associazione di coloni radicali. E se la Palestina – per la quale Gerusalemme est è la sua capitale – ne chiedesse l’inserimento? E chiedesse la Tomba di Lazzaro, il Monte degli Ulivi e l’Ascensione, i monasteri bizantini che sono sparsi qua e là? Se, persino, chiedesse di inserire – com’è stata inserita la Città Bianca di Tel Aviv – quei quartieri arabi che erano stati il cuore della borghesia palestinese di fine impero Ottomano? Sono a ovest della Linea Verde, ma rappresentano un’eredità culturale palestinese, fondamentale per raccontare la storia contemporanea di Gerusalemme.

Morale: da queste parti, la cultura, l’archeologia, la Storia sono intrise di politica. Non solo da parte palestinese. Negli ultimi decenni, gli studi sull’uso dell’archeologia, a Gerusalemme e dintorni, si sono sommati gli uni agli altri. Sono letture interessanti, scritte da studiosi palestinesi, israeliani, ‘internazionali’. E dopo queste letture, lo sguardo su Gerusalemme, e su tutto il resto, si fa molto meno mistico…

Fonte: Invisiblearabs.com

1 novembre 2011

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