Aghanistan: Terra, oppio e guerra
Emanuele Giordana - Lettera22
La missione di pace prosegue in Afghanistan. Le riflessioni di Emanuele Giordana all’arrivo della delegazione composta da Tavola della pace, Afgana e Peaceful Tomorrow.
LUSTRASCARPE A KABUL, SCARPE A RIAD, diario da Kabul
di Emanuele Giordana
A Kabul piove raramente e per poco tempo. Ma arrivando ieri mattina all'aeroporto, il terreno era già bagnato e la pioggia è andata avanti tutto il giorno. Noiosa e insistente, sufficiente per rendere la città un pantano. A esser cinici si potrebbe dire che, se questa capitale ha un problema, riguarda le scarpe: perennemente impolverate se è secco. Dannatamente infangate se piove. Così che la lucentezza di una scarpa è in grado di dirvi, più della fattura o della qualità del cuoio, se chi la calza è una persona importante. E ciò spiega anche perché i lustrascarpe hanno davvero un senso in questa città di cinque milioni di abitanti dove manca l'acqua potabile, lo smog ferisce l'aria teoricamente purissima dell'Hindukush, le fogne corrono a cielo aperto fino a un fiume talmente sporco e maleodorante da essere la perfetta icona del degrado ambientale in cui versa Kabul. Manca tutto ma non la spazzola per scarpe. La pioggia si accompagna alla fine di Eid, la festa che conclude il Ramadan e che si celebra con grandi libagioni e con piacevolissime strade sgombre: code ridotte, smog e polvere, già assopiti dall'acqua piovana, che riducono oggi la loro perversa pressione sui polmoni dei cittadini della capitale. Ma c'è altro che sta come in sospensione. Che aleggia silenzioso, che va e viene tra indiscrezioni, mezze parole, rumor. A pochi mesi dalla riunione che si prepara in Germania a dieci anni dalla Conferenza di Bonn che, nel 2001, aprì la strada al “nuovo Afghanistan”, la domanda vera è su quel che sta succedendo del processo di pace. Proprio per la festa di Eid, mullah Omar ha chiarito che a Bonn non ci andrà e dunque perdete ogni speranza o voi che ci contavate (gli europei). Karzai dal canto suo non sa bene come metterla. Le ultime indiscrezioni dicono che, durante la sua visita a Riad settimana scorsa, erano nella capitale saudita anche alcuni esponenti talebani. Ma pare sia stata solo contiguità, favorita dai sauditi, e che non ci sia stato nessun incontro. Nemmeno il tempo di guardarsi la punta delle scarpe.
Fonte: Lettera22, Terra
2 settembre 2011
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Terra, oppio e guerra
Nel giugno dell'anno scorso Viktor Ivanov, a capo del Servizio narcotici della Federazione russa, spiegò in un forum internazionale sul narcotraffico che Mosca intendeva sostenere la creazione di un archivio della proprietà terriera in Afghanistan. In altre parole la costruzione di un catasto. Che non esiste o esiste solo in forma ridotta.
Ivanov diceva dunque quel sarebbe stato opportuno spiegare diversi anni fa: come si può mettere mano al problema della produzione di oppio se non si conosce chi possiede e protegge i campi coltivati a papavero? Apparentemente una banalità ma così a lungo ignorata che il catasto afgano è ancora quello – monco – cui mise mano con un riforma, una quarantina d'anni fa, re Zaher Shah. L'ultimo monarca afgano.
In Afghanistan infatti, oltre ai “ignori della guerra” ci sono anche dei “signori della terra”, proprietari terrieri che spesso sono anche “signori della guerra”. Oppure ci sono dei signori della guerra a vario titolo (commander più o meno importanti) che, col tempo, sono diventati signori anche della terra.
Il rapporto tra terra e guerra, proprietà fondiaria e conflitto, potere (militare) sul territorio e relazioni sociali, costituiscono alcuni degli aspetti meno indagati della storia recente del Paese: lacuna che finisce per far ignorare, e/o considerare come secondario, il problema del possesso della terra, delle relazioni economiche tra possidenti, affittuari o contadini poveri e la catena di relazioni sociali connesse (non ultimo il ruolo delle donne nei matrimoni combinati e il loro valore come merce di scambio nel mondo rurale). Elementi che in un Paese eminentemente agricolo contano in maniera preponderante: la proprietà della terra e il suo controllo, sembrano invece fattori tanto importanti quanto sotto stimati e studiati, salvo rarissime eccezioni. Eppure proprio il “nuovo ordine” economico e sociale, importato in Afghanistan con la cacciata dei talebani nel 2001, ha innestato o favorito liberalizzazioni e alienazioni di beni pubblici, utilizzo del suolo (un aspetto strettamente connesso alla produzione di oppio e al narcotraffico), speculazione edilizia e occupazione di terreni demaniali in assenza quasi totale di regole e di archivi di riferimento e in un quadro di scarsa attenzione al problema della legislazione in materia di diritti di proprietà. Temi che hanno ottenuto scarsa considerazione nel processo di state-building (o rebuilding) da parte della comunità internazionale e dello stesso governo afgano. Quanto all'oppio in sé, il problema della sua produzione ci sembra solo in parte risolvibile con strategie di eradicazione, sostituzione o monopolio di Stato delle coltivazioni, che sono i temi su cui si incentra il dibattito: affrontato in sostanza come un problema di contadini poveri che, per sfamarsi, preferiscono l'oppio alle patate. In gran parte ci sembra invece che si tratti di un nodo che ha a che vedere più con il possesso della terra che con il ruolo di agricoltori bisognosi che, il più delle volte, sono solo mezzadri, braccianti e landless. E' ai loro “padroni” che bisognerebbe guardare. E dunque al catasto – se ci fosse – che certifica proprietà e gestione della terra
Proprietari e contadini senza terra
Il 78% degli afgani vive in aree rurali (di questi il 20% è nomade). Otto afgani su dieci insomma sono agricoltori o pastori. La maggior parte tra loro sono landless, coltivano la terra in regime di mezzadria o sono piccoli o piccolissimi proprietari. Solo il 2,2 % degli afgani detiene il 19% del totale della terra (652mila kmq), che per il 40% è composto da aree incolte e inutilizzabili e per il 45% è pascolo (per il quale i diritti sono regolati da una legislazione assai più chiara rispetto a quella vigente per i terreni irrigui). La proprietà privata dunque, inevitabilmente, finisce per insistere sulle poche zone irrigue e pianeggianti, un risicato 12-15%, che costituiva però una delle aree più redditizie dell'economia primaria dell'Afghanistan. Si stima che in Afghanistan vi siano circa 1,2 milioni di aziende agricole con una media di 5 ettari di terra arabile: ma il 73% dei contadini possiede meno di 5 ettari mentre il 5,4% fra loro possiede appezzamenti superiori ai 20 ettari e controlla il 30% delle terre irrigue e il 46% dei terreni che sfruttano le precipitazioni: solo l'11% dei terreni irrigui e il 3% di quelli che utilizzano acque pluviali (sul totale del 15% coltivabile), scrive il ricercatore scrive Hector Maletta, è messo a coltura da coltivatori diretti. Una realtà poco indagata eppure fondamentale, come argomenta la studiosa Liz Alden Wiley:“…disconoscendo la centralità dei diritti sulla terra come centrali in un processo di pace e di ricostruzione….l'aiuto internazionale ha rinforzato la percezione che il problema della proprietà della terra è troppo complesso e sensibile per prenderlo in mano ora… (dopo il 2001 ndr)”. Le cose non sembrano molto cambiate col procedere del nuovo assetto istituzionale.
Ginepraio legislativo
Attualmente la riorganizzazione del settore è affidato alla nuova Afghanistan Land Authority (Ala) che ha diverse gatte da pelare. Il vecchio catasto agrario coprirebbe infatti il 30% del territorio ma non è l'unico problema: il nodo della terra è complicato dalla legislazione esistente che si divide tra diverse regolamentazioni spesso in contraddizione tra loro: la legge consuetudinaria (rawaj), che opera attraverso codici tribali, come il pashtunwali per le tribù pashtun; la legge civile (qanoon madani) del 1970 che include un migliaio di direttive; la sharia, spesso applicata anche alle diatribe di proprietà se il codice civile non copre il caso; infine, le leggi statali (nazionali), spesso in contraddizione con gli altri codici, e la nuova Costituzione che fissa i diritti fondamentali di proprietà.
A complicare il quadro c’è una materia da amministrare davvero complessa: terre del demanio (amlaki dawlati); terre pubbliche (maraa), controllate ma non possedute dallo stato e spesso oggetto di vendita a privati; terre private (amlaki shakhsi), terre comunitarie (mushtarak), ossia di tutti ma in pratica controllate dai khan, i dignitari tribali; terre delle fondazioni religiose (waqf), in gran parte ormai sotto controllo statale.
Il vuoto di potere, il prolungarsi del conflitto, l'enorme massa di sfollati interni e di profughi verso Pakistan e Iran (che lasciando case e terreni ne hanno perso di fatto il possesso) e le varie legislazioni (consuetudinaria, civile, religiosa) hanno finito per favorire le appropriazioni indebite da parte dei “signori della guerra”, che fossero già o meno “signori della terra”. L'appropriazione – storia recentissima persino nella capitale su terreni demaniali – dipendeva (e ancora dipende) dall'uso o dalla minaccia della forza, in una situazione caratterizzata dall'enorme fragilità delle già debolissime classi contadine, in molti casi e per anni profughe all'estero, dall'incertezza sui diritti di proprietà e sullo sfruttamento delle acque, dal collasso di infrastrutture e canalizzazioni, dall'indebitamento cronico, dall'impossibilità di ottenere il riconoscimento dei propri diritti dopo le confische a opera di comandanti militari, dalla debolezza dello Stato e del sistema giudiziario. Un quadro sovrastato dall'assenza di una minima base archivistica (catasto dei terreni, registro dei beni immobili etc).
Riforma e ribellione
La questione del rapporto tra terra e conflitto viene da lontano. Prestando attenzione ai soli avvenimenti del XX secolo, è la riforma agraria di Muhammad Daud, presidente della neonata repubblica afgana (1973-78), il primo tentativo serio di regolare il problema della land tenure: in sostanza la riforma consisteva nella definizione di un tetto alla proprietà terriera oltre il quale si procedeva alla confisca. Un nodo che nemmeno grandi riformatori monarchici come Amanullah Khan (che aveva proclamato nel 1919 l'indipendenza dell'Afghanistan e promulgato la prima Costituzione) avevano toccato e che costituiva del resto per la monarchia afgana la base di una pace sociale garantita dalla sostanziale intangibilità dei diritti dei landolord. Fallita con Daud, la riforma venne ripresa dai governi filosovietici insediatisi già prima dell'invasione dell'Armata rossa nel 1979.
Quella di Nur Muhammad Taraki (poi proseguita da Hafizullah Amin, l'uomo che “chiederà” l'intervento sovietico) fu imposta con la forza e senza fissare una ricompensa agli espropriati, mentre il governo decideva la cancellazione retroattiva fino a cinque anni dell'indebitamento dei mezzadri. Ma nelle campagne la riforma, che già ai tempi di Daud era stata fortemente osteggiata, trovava fortemente contrari proprietari e mullah già oppositori della ventata di modernismo che, iniziata con la repubblica, era stata portata alle estreme conseguenze dai governi comunisti: la riforma riduceva il loro potere e quello delle fondazioni islamiche e metteva inoltre in discussione le regole consuetudinarie su cui si basava da secoli la forza dei kahn, i capi tribali custodi della tradizione. Alla base c'era dunque, oltre all'aspetto ideologico anti comunista e alla condanna di tutta una serie di innovazioni di carattere socioculturale (dalle politiche di genere alla diffusione dei programmi di educazione, tutte forme che sottraevano a khan e mullah, almeno in parte, il controllo sociale), un problema di controllo e proprietà della terra.
Com'è noto, la reazione soprattutto nelle campagne (il luogo dello scontro sul controllo territoriale), fu uno dei motivi – su cui per altro il dibattito degli storici è ancora molto vivace – che portarono Mosca a decidere la svolta interventista. “La ribellione, accompagnata da quella dovuta alla radicale riforma nel settore educativo – scrive la Wiley – portò all'occupazione sovietica”. Parafrasando la studiosa, si potrebbe dire che, indubbiamente, la riforma e la conseguente ribellione furono effettivamente uno dei motivi chiave che poi fecero decidere a Mosca l'intervento. Uno dei motivi. E forse non il principale (è nota la teoria sul timore che gli americani stessero accerchiando l'Urss da Sud con un programma – di cui non c'era alcuna prova – che li voleva creatori di una sorta di scudo missilistico in Afghanistan). Certo però la terra, non meno dell'avversione all'ideologia laica e progressisti dei nuovi governi modernisti, giocò un ruolo fondamentale.
La ribellione alla riforma, fortemente osteggiata dalle leadership religiose e tribali che guidavano la rivolta, finì per trovare l'appoggio persino per degli strati più poveri della popolazione che in realtà dalla riforma agraria avrebbero avuto tutto da guadagnare. Fu l'insieme di diversi elementi a giocare a favore delle ragioni dei proprietari. La studiosa italiana Elisa Giunchi lo spiega così: “Si andavano a toccare i tre pilastri della società, zar, zan e zamin” (donne, oro, terra). E si andava a turbare un equilibrio consolidato, ignorando “…i rapporti di reciprocità che univano le varie componenti del mondo rurale: il proprietario terriero era, spesso, anche il capo tribù…non vi erano due classi sociali separate e contrapposte, proprietari e contadini, ma gruppi uniti da legami di solidarietà clanico-tribale o clientelare”. Giocò anche l'ostilità a “qualsiasi tipo di interferenza esterna” (un tema che ricorre ciclicamente e ancora oggi è il perno della propaganda talebana ndr) mentre si ignorava l'esistenza di “terreni comunitari registrati sotto il nome dei khan, l'inadeguatezza dei documenti scritti e il nomadismo. La conseguenza fu – conclude Giunchi – che il mondo contadino, invece di approfittare di queste riforme, insorse in difesa dei suoi oppressori.” Oppressi e oppressori finirono così per andare d’accordo in nome di una tradizione millenaria che era stata minata nel giro di pochi anni.
E’ anche su questo sentimento che giocherà poi la nascita del movimento di mujaheddin che, oltre che al Corano, si ispirerà alla tradizione locale, diventando il baluardo della difesa di antichi principi consuetudinari e identitari.
Conclusioni
Per tornare all'oppio, con cui abbiamo iniziato, il problema della sua produzione non può dunque essere trattato solo come un'emergenza criminale o una questione “agricola” di sostituzione delle coltivazioni, come se non fosse la proprietà ad orientare il sistema delle colture. Il che sembrerebbe una tesi assai più logica della teoria che va per la maggiore, secondo cui si tratta semplicemente di una scelta dei contadini sulla base dell'andamento del mercato.
Tutti gli elementi fin qui menzionati appaiono far parte dunque di una stessa filiera: di una catena che ricongiunge i suoi anelli attraverso gli anni del conflitto e della pace “armata” che ancora comanda nelle campagne le relazioni economiche. Non di meno, e come evidentemente racconta una letteratura scarna e che appare quasi occasionale, né la comunità internazionale né il governo afgano sembrano aver preso in seria considerazione un problema che appare come un'emergenza (la riforma agraria, le controversie sulla proprietà, l'archivio delle proprietà) che si trascina da sei lustri e che è stata – e probabilmente continua ad essere – una delle tensioni latenti del conflitto. E che, se è vero che la maggior parte dei dissidi tra comunità dipende dai contenziosi sulla terra, continua probabilmente ad alimentarlo.
Fonte: Terra
agosto 2011