Un’estate insieme a Libera. Don Ciotti: “Una nuova solidarietà”
Annalisa Cuzzocrea
Più di quattromila giovani al lavoro sui terreni confiscati alle mafie. Per l’associazione, anche la Nazionale di calcio, che si allenerà a Rizziconi, su un campo strappato ai boss. Ma continuano le intimidazioni.
ROMA – Davanti alla corruzione, davanti alla mafia, davanti alla cultura dell’illegalità indignarsi non basta. Serve il disgusto. Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera 1, coordina 1600 associazioni e gruppi, segue progetti in migliaia di scuole italiane, produce pasta e olio sui terreni confiscati alla mafia. E quest’estate chiama migliaia di ragazzi a farlo con lui. Sono più di quattromila, i partecipanti ai campi estivi di Libera. Posti esauriti. Dal nord al sud, da Varese al Cilento, fino alla piana di Gioia Tauro. Repubblica.it pubblicherà il diario dei ragazzi da un campo all'altro, gli incontri e le esperienze. Con i racconti e i video.
Domenica scorsa la ’ndrangheta ha incendiato 14 ettari di ulivi a Oppido Mamertina, in Calabria. Il giorno prima, aveva bruciato l’auto di don Tonino Vattiata, esponente di Libera a Pannaconi, in provincia di Vibo Valentia. Ogni volta che qualcuno dei suoi riceve intimidazioni, don Ciotti si sente responsabile. Poi però vede che attorno a quelle ferite qualcosa si muove. “Una nuova solidarietà, una nuova consapevolezza di ciò che è giusto e di ciò che non lo è”. Che in qualche modo, si diventa più forti.
“La ‘ndrangheta ha incendiato quel campo, ma lì – nella piana di Gioia Tauro – sono già a lavoro giovani di tutt’Italia per i campi estivi di Libera. Campi che servono a conoscere, e a sudare: con le mani nella terra, sotto il sole. Niente di comodo, niente di facile”, dice fiero di quello che quei ragazzi vanno a fare. Dello spirito con cui lo fanno. E poi certo, se la nazionale di calcio andrà a giocare nel campo di Rizziconi che sorge su un terreno espropriato ai boss locali, e che per questo nessuno ha il coraggio di usare, sarà un altro segnale. “Piccoli simboli”, li chiama lui, ma che fanno più di tanta retorica. “Non giocheranno solo a pallone, porterò davanti a quei ragazzi in pantaloncini corti i familiari delle vittime della malavita. Porterò i genitori di quel bambino di 11 anni morto su un campetto di calcio, ucciso da un proiettile partito durante una sparatoria tra clan rivali”.
I campi di Libera sono soprattutto un’esperienza di conoscenza. “Vedo molta antipatia di fronte al sapere, di fronte alla cultura – spiega don Ciotti – si ha paura di andare oltre la superficie, si dice che non serve, e invece è tutto il contrario. Se c’è un peccato oggi, è la mancanza di sapere”.
La paura, di sapere. “L’ho detto altre volte quello che penso della legge bavaglio, e lo ripeto. Non si può chiedere ai magistrati di mettere dentro i colpevoli, di combattere la corruzione che uccide – anche economicamente – questo Paese, senza dargli i mezzi per lavorare. Tra questi, fondamentale, l’uso delle intercettazioni. E’ ovvio che non deve uscire quel che riguarda solo il privato della gente, ma il resto sì. Il resto serve”. Non per indignarsi, appunto, ma per provare disgusto. Per cambiare le cose. “La riforma della giustizia che hanno in mente non è quella che serve, non è quella che permetterebbe sentenze più veloci, carceri più vivibili. E’ – semplicemente – un esproprio della giustizia”.
“Ma io vedo un fermento – dice don Ciotti – un nuovo interesse dei giovani, di molte persone, al bene comune. Lo abbiamo visto al referendum , lo vedo nel lavoro quotidiano di tutti i giorni”. Certo non è facile, quando i messaggi che passano sono così terribili. Pensa all’immigrazione, don Ciotti. All’assurdità del reato di clandestinità. Fa una pausa, un sospiro: “E’ ovvio che vanno cercate risposte complesse a problemi complessi. Il gruppo Abele, che ho fondato, è in Africa da trent’anni. Cerca quelle risposte da 30 anni. Ma quando vedo che 11 milioni di bambini muoiono per colpa del commercio, perché non hanno accesso ai farmaci ai vaccini al cibo, mi chiedo che senso abbiano gli annunci roboanti dei G7, dei G8, dei G20”.
Quanto all’Italia, quel che si sta facendo – usando gli immigrati per fare propaganda politica nel nome della “sicurezza” – è “educare alla disumanità”. “Cosa stiamo dicendo a quei bambini che non vedono più il compagno di banco perché hanno smantellato il suo campo nomadi? Cosa diciamo a quei ragazzini che ne vedono in televisione altri, uguali a loro, solo più scuri, arrivare su barconi malandati, mentre gli adulti spiegano che se ne devono andare, che non c’è posto. Stiamo educando alla disumanità. E questo è per me è il dolore più grande”.
Fonte: Repubblica.it
23 giugno 2011