Il disastro internazionale della vendetta
il Manifesto
Lunedì sera tutto era sembrato migliorare, ma già ieri mattina è apparso chiaro che siamo ancora nel bel mezzo di una guerra crudele.
Per giorni sono circolate le versioni più disparate su due questioni centrali nella guerra a Gaza: l’attacco israeliano a Rafah e il possibile rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Rafah è un punto di passaggio critico da Gaza all’Egitto e il governo di Abdel Fattah al-Sisi vedeva nell’attacco una fonte potenziale di gravi problemi, sia perché gli egiziani non sono disposti ad accogliere i palestinesi in fuga verso l’Egitto, sia per le ripercussioni sui rapporti fra Egitto e Hamas, sui rifugiati e sul controllo di un valico di grande importanza strategica.
Per gli statunitensi, era chiaro che un attacco israeliano avrebbe portato a ulteriori disastri umanitari e prolungato la guerra, pregiudicando sia i possibili piani nella regione sia accordi con potenziali alleati, e oltretutto aggravando i problemi elettorali del presidente Joe Biden.
Lunedì sera tutto era sembrato migliorare, ma già ieri mattina è apparso chiaro che siamo ancora nel bel mezzo di una guerra crudele. Più che un messaggio ad Hamas, l’attacco spacciato per «moderato» è un messaggio a statunitensi ed egiziani, per moderare le pressioni di entrambi e allo stesso tempo migliorare le precondizioni per un possibile negoziato.
Netanyahu e il suo altamente problematico governo devono affrontare critiche costanti da parte degli israeliani che si aspettano non solo il rilascio dei circa 130 ostaggi, ma molto di più. E invece tutta la politica del premier è incentrata sulla prosecuzione della guerra, unica possibilità di sopravvivenza politica.
Nel sud di Israele, adiacente alla Striscia di Gaza, per centinaia di migliaia di israeliani il ritorno a casa appare ancora lontano. Nel nord, la guerra con Hezbollah ha già spinto 40-50 mila cittadini a lasciare le loro case. A dispetto delle promesse fatte a questo enorme numero di sfollati interni, molti iniziano a rendersi conto che la vita precaria proseguirà, senza un vero futuro e con una situazione economica in continuo peggioramento.
Evidentemente, se il governo israeliano dovesse raggiungere un cessate il fuoco con Hamas, questo permetterebbe a Hezbollah di rispettare le proprie dichiarazioni, secondo le quali un cessate il fuoco nel sud è una precondizione per un accordo anche nel nord. Significherebbe riaprire la regione alle pressioni statunitensi, che da tempo cercano di raggiungere accordi simili a quelli sul gas che avrebbero una grande influenza sull’economia libanese. I francesi, da parte loro, continuano a considerarsi molto legati al Libano e sostengono con decisione diverse forze in quel paese, il che non è necessariamente positivo agli occhi degli altri attori della regione.
Il 7 ottobre, di fronte al barbaro attacco di Hamas, la chiara indignazione internazionale aveva creato un’atmosfera favorevole a Israele, con una generale condanna dei crimini commessi – omicidi, saccheggi, stupri, incendi. Ma Israele ha scelto una risposta barbara, basata sulla vendetta; così, il quadro internazionale è radicalmente mutato. Non solo nelle università degli Stati uniti; l’inaudito massacro di civili palestinesi ha determinato un mutamento radicale anche in tutta Europa.
Nei lunghi anni di governo di Netanyahu, si sono accentuate le correnti nazionaliste fondamentaliste e si è rafforzato l’obiettivo di «liberare le terre sacre assegnateci da Dio»; formule come quella dei due Stati per due popoli hanno dunque perso forza. La politica di Netanyahu è sempre stata all’insegna dell’ambiguità, per esempio, «il denaro ad Hamas è una mossa intelligente per placarne la violenza». Con gli aiuti del Qatar – costantemente incoraggiati da Netanyahu – sono arrivati a Gaza decine di milioni di dollari, in parte per le necessità di Hamas e in parte anche per la popolazione.
La cosiddetta pace di Trump e Netanyahu ha significato un altro passo nella rinnovata presenza statunitense in Medio oriente. In una situazione aggrovigliata. Una delle principali basi militari degli Stati uniti si trova in Qatar. Gli emirati sono alleati tradizionali degli Usa e al tempo stesso Israele, alleato di Washington, ha sempre mantenuto una ostilità di base rispetto ai paesi arabi.
William Quandt, uno dei più autorevoli studiosi del Medio Oriente, scriveva negli anni 1970 che quando Hafez al-Assad (il padre dell’attuale presidente siriano) invase la Giordania e Israele fece partire i propri aerei facendolo ritirare senza combattere per la prima volta, lo Stato ebraico dimostrò di poter essere un fattore importante nelle dinamiche del Medio oriente.
Quando sentiamo che gli aerei dell’Iran stanno per attaccare, possiamo dormire sonni tranquilli. Non è stata solo la potente aviazione israeliana a decollare: aerei giordani e statunitensi hanno contribuito a sventare un grande attacco di droni.
Gli interessi statunitensi nell’area vanno al di là del Medio Oriente. Neutralizzare l’Iran e coinvolgerlo in nuovi accordi significa frenare l’ingresso dei russi e dei cinesi. L’Iran è un fattore importante di fronte alle necessità di Putin, imbarcato nell’invasione dell’Ucraina, un ginepraio inaspettato. I cinesi si contengono e al tempo stesso creano nuovi potenziali alleati.
Per molti anni la formula «due Stati per due popoli» è stata la risposta problematica e debole del pacifismo israeliano e dell’Europa di fronte al fascismo annessionista israeliano. Improvvisamente Europa e Stati uniti sembrano volere un revival della formula.
Una delle ragioni evidenti della reazione dell’estrema destra al governo in Israele è senza dubbio diretta a contrastare la possibilità di un forte rilancio di qualsiasi accordo di pace. Che porterebbe Israele ad accettare un accordo con l’Arabia saudita che, a quel punto, comporterebbe la necessità di legittimare le aspirazioni palestinesi.
Fonte: Il Manifesto. Di Zvi Schuldiner