Il fallimento della guerra al terrore
Avvenire
A 22 anni dall’11 settembre al-Qaeda è ritornata forte per colpire. Anche gli esperti ammettono il “fallimento della guerra al terrore” seguita agli attentati negli Stati Uniti. Identificate altre due delle 2.753 vittime delle Twin Towers.
A 22 anni dall’attacco alle Torri Gemelle, al-Qaeda e il Daesh sono più vivi che mai.
La guerra al terrorismo è fallita, ammettono anche i “falchi”. Ha avuto un unico risultato: aggiungere lutti alle 2.753 vittime delle Twin Towers, 40% delle quali ancora ignote.
Le identificazioni vanno a rilento, anche se le autorità di New York hanno appena informato che altri due di quegli innocenti recuperati tra le macerie di Ground Zero hanno finalmente un’identità. Mentre, nel “Muro della memoria” sono stati aggiunti i nomi di 43 soccorritori morti per le conseguenze di malattie contratte quel tragico giorno.
Domani, di ritorno dal G20 e dal Vietnam, Joe Biden non riuscirà a recarsi a New York e si limiterà a una cerimonia durante uno scalo ad Anchorage in Alaska. A deporre la tradizionale corona di fiori a Ground Zero sarà la vice Kamala Harris.
A oltre due decenni di distanza, in ogni caso, appare evidente come la strategia muscolari post-11 settembre si sia rivelata un errore.
Benladen, al-Zawhairi e al-Baghdadi sono morti, ma l’idra jihadista non è scomparsa. Ha rinnovato ranghi e leadership. L’Afghanistan lo prova: dopo la ritirata statunitense e la vittoria taleban, il Paese è tornato agli albori. Al-Qaeda vi prospera ovunque: a Kabul, Kandahar, Helmand e Kunar, con più di 20mila uomini, agli ordini di una sessantina di capi militari. Decine sono i campi d’addestramento e i santuari. I qaedisti di oggi sono identici a quelli dell’11 settembre: stessa agenda e stessi propositi. Sono cambiati solo i leader: l’emiro attuale sarebbe Saif al-Adel, che l’intelligence ritiene acquartierato in Iran o nel nord della Siria, nell’impenetrabile Idlib. L’uomo è sfuggente, ma il Soufan Group lo descrive come: «il soldato più valido del jihad mondiale».
È lui la chiave dei taleban contro il Daesh-Khorasan, un altro nemico nostro e di tutta l’Asia centrale. Gli attentati sono all’ordine del giorno, con decine di morti in Pakistan. Nel distretto di Bajaur, l’idra jihadista affila i tentacoli che travalicano la regione. Sta conquistando fette della Penisola arabica ed è all’offensiva in molte parti dell’Africa. È qui la nuova frontiera, dove stanno cadendo città e campagne. Tidarmené è capitolata ad aprile. Menaka, una megalopoli lontana 80 chilometri soltanto, è accerchiata. Il terrorismo non conosce ha frontiere: al-Qaeda opera nel Sahel, in Mozambico, in Somalia, in Nigeria e nel bacino del lago Ciad. Combatte una guerra fratricida col Daesh ed un’altra, non meno sanguinosa, contro i fragili governi locali.
La violenza armata è inarrestabile, cresciuta in un anno del 22 per cento. Tutto favorisce il jihad: la povertà sociale e la fine dell’operazione militare francese, insulsa come le guerre americane. Nonostante dieci anni di battaglie, i 15mila jihadisti saheliani sono più forti di ieri. È ora di ammettere che per sconfiggere il jihadismo non servono i droni e la forza bruta, ma programmi sociali, sviluppo e istituzioni affidabili. Negli Emirati afghano, nord-siriano e africano, il 40% della popolazione vive con meno di 1,90 dollari al giorno. Non ha prospettive e si fa ammaliare dalle sirene jihadiste.
Francesco Palmas
Fonte: Avvenire
11 settembre 2023