Le armi cattive diventano buone
Avvenire
Caso Rwm, pericolosa narrazione.
Il “mestiere delle armi” è, forse, il secondo più antico del mondo. Proprio come per il primo, la definizione di mestiere – intesa in senso etimologico di “ufficio necessario al servizio della comunità” – ne attenua o occulta le reali implicazioni, per chi lo pratica o lo subisce.
Specie quando il “mestiere delle armi” si svolge lontano dal campo di battaglia, dal sibilo dei proiettili, dal frastuono delle bombe sui muri delle case, dal vociare mesto dei profughi. Specie quando l’arma diventa un congegno fatto di componenti separate e ipertecnologiche, ingranaggi duali asettici di un sistema apparentemente astratto. È quanto accade negli uffici con aria condizionata e luci metalliche delle grandi multinazionali belliche dove le singole parti sono ideate, progettate, costruite e, soprattutto, vendute senza che tecnici, operai e, più di ogni altro, manager vedano il prodotto finito. E, soprattutto, le sue conseguenze.
Diventa facile, così, dimenticare il fine del “mestiere”: la guerra. Si potrebbe obiettare che le armi sono necessarie per garantire la convivenza civile. E sarebbe vero, ma solo in parte. Non sono i rifornimenti alle forze di sicurezza – più o meno costanti – bensì i conflitti a far lievitare i fatturati dell’industria militare.
L’invasione russa dell’Ucraina lo ha mostrato in modo inconfutabile. Il nuovo scontro tra Est e Ovest ha causato un’impennata del 3,7% della spesa in armamenti nel 2022, secondo l’Istituto di ricerche sulla pace (Sipri) di Stoccolma, un totale di 2.240 miliardi di dollari, di cui i Paesi Nato hanno sborsato il 55%. Ma è il dato europeo il più eloquente: + 13%, l’incremento maggiore dalla Guerra fredda.
L’altra faccia della medaglia è la crescita inarrestabile degli introiti delle aziende produttrici, molte delle quali sono appena entrate trionfalmente in Borsa. Lo scorso 20 marzo lo ha fatto il colosso della difesa Rheinmetall che ha scalzato un grande gruppo sanitario dalla lista delle principali aziende quotate della Germania. Il caso Rheinmetall non è citato a caso: quest’industria tedesca riguarda direttamente l’Italia. La sua costola Rwm ha sede amministrativa a Ghedi mentre gli impianti si trovano a Domusnovas, nel sud della Sardegna, in quel Sulcis da sempre ai primi posti per disoccupazione.
I 98 impieghi offerti dalla società – che in totale ha uno staff di 192 persone a tempo indeterminato –, dunque, sono preziosi in un territorio orfano delle miniere e di politiche economiche di rilancio. Questo non ha impedito la nascita di un coraggioso comitato di cittadini che da anni chiede la riconversione dello stabilimento da cui sono partite – come numerose inchieste di Avvenire e di Ong indipendenti hanno documentato – le bombe scaricate dalla coalizione a guida saudita sullo Yemen dilaniato dalla guerra nel 2015. Una catastrofe umanitaria più volte denunciata dalle Nazioni Unite.
Proprio la battaglia della società civile ha portato l’Italia a fermare, nel 2019, l’export militare nei confronti di Riad e degli Emirati. Acqua passata, ormai. Il mese scorso, il blocco è stato rimosso.
Difficile non mettere in relazione il dietrofront con l’effetto Ucraina e il contributo di Rwm alla produzione di munizioni per i Leopard. Le armi “cattive” nello scenario yemenita sono, così, diventate repentinamente “buone” se riferite a Donbass e dintorni. Segno che l’ordigno più micidiale non è fatto di metallo.
La narrazione – ovvero il modo in cui la temperie bellica viene raccontata – è fondamentale quanto o più dei carrarmati. Lo sa Vladimir Putin, maestro di disinformazione. E lo sa anche l’Occidente: nel nome del legittimo contrasto alle pretese imperialiste dello zar, ha sdoganato un’euforia bellicista che finisce per fare gli interessi dell’industria delle armi.
Un entusiasmo che, invece, preoccupa chi ha a cuore le sorti dell’Ucraina: ridicolizzare o liquidare come irrilevanti le iniziative di dialogo messe faticosamente in campo – tra cui quella del cardinale Zuppi, inviato di papa Francesco – è funzionale alla perpetuazione del conflitto. Il rischio di escalation, poi, è sempre in agguato, come dimostra la facilità con cui si sente evocare “l’apocalisse nucleare”.
Domani saranno trascorsi esattamente sei anni da quando l’Assemblea generale ha deciso di mettere l’atomica fuori dalla legge. Non, tuttavia, purtroppo, ancora, dalla storia come confermano le oltre 12.500 testate attive, il 90% nelle mani di Usa e Russia che ora le stanno modernizzando. Con quale fine? “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, dicevano i romani. Il tempo non solo ha dimostrato il contrario. Ha anche messo tragicamente in luce come una pace troppo armata è foriera di nuovi conflitti.
Lucia Capuzzi – Avvenire – 6 luglio 2023