Papa Francesco in Congo e Sud Sudan
Enzo Nucci
Il viaggio di Papa Francesco nei due paesi africani, entrambi squassati da conflitti, dove la pace resta un lontano miraggio.
E’ un viaggio molto atteso quello che papa Francesco ha in agenda tra il 31 gennaio ed il 5 febbraio prossimi nella Repubblica Democratica del Congo ed in Sud Sudan.
Una visita già programmata per lo scorso luglio ma slittata per motivi di salute. Due paesi africani squassati da conflitti, dove la pace resta un lontano miraggio. L’impegno di Francesco verso queste nazioni è di vecchia data.
Nella nostra memoria resta scolpita la potente immagine del Papa in Vaticano che l’11 aprile del 2019 invocando la fine della guerra civile in Sud Sudan baciò i piedi dei due eterni contendenti: il presidente Salva Kiir ed il suo vice Riek Machar. Così come lo scorso luglio si appellò ai governanti di Kinshasa e Juba invitandoli a “voltare pagina per tracciare piste nuove, cammini nuovi di riconciliazione e perdono”. Il richiamo è caduto nel vuoto ed in questi mesi le cose sono peggiorate. Francesco ha infatti dovuto annullare la visita a Goma (dove fu ucciso l’ambasciatore Attanasio) per l’insicurezza che regna nell’area.
L’ennesimo cessate il fuoco nell’est della Repubblica Democratica del Congo infatti ha retto appena 5 giorni perché sono ricominciati i combattimenti tra l’esercito governativo (sostenuto da militari di Uganda, Kenya, Sud Sudan, Burundi) ed i numerosi ed eterogeni gruppi ribelli, tra cui spicca l’M23 (Movimento 23 marzo). La posta in gioco è il controllo delle enormi risorse minerarie del sottosuolo ed una intricata rete di interessi politici delle nazioni confinanti. Kinshasa accusa i ribelli del massacro di 272 civili (tra cui 17 bambini) nel villaggio di Kishishe, 70 chilometri a nord di Goma, ma l’M23 respinge gli addebiti. Secondo alcune fonti, la strage sarebbe stata una rappresaglia in risposta ad un attacco in cui sono morte di personalità di primo piano di nazionalità ruandese (solo ufficiosamente operanti sul territorio) compito da una milizia locale di autodifesa.
A surriscaldare il già rovente clima si è aggiunta la minaccia del presidente ruandese Paul Kagame di inviare anche le sue forze armate nella regione orientale del Kivu in risposta ai colpi di artiglieria caduti in Ruanda. Un aperto intervento del governo di Kigali (che sotto banco ma non troppo appoggia i ribelli) renderebbe il conflitto molto più duro e cruento, prolungando così le sofferenze delle centinaia di migliaia di profughi congolesi (390 mila solo negli ultimi mesi), e rendendo sempre più opaca ed inutile la presenza dei caschi blu dell’Onu della Monusco, la missione di pace più grande al mondo. Ed è caduto nel vuoto anche l’appello di Antony Blinken, segretario di stato statunitense, che ha pubblicamente chiesto al Ruanda di bloccare l’appoggio al M23 per favorire la pace. Ma da Kigali è arrivata l’ennesima e caparbia bugia tesa a negare ogni rapporto con i ribelli. Una bugia tanto più problematica se si considera che il Ruanda è il miglior alleato degli Usa in Africa. La chiesa congolese ha organizzato manifestazioni in tutto il paese per chiedere la pace rilevando anche l’ambiguità dell’occidente che tace sul ruolo del Ruanda, interessato a dividere la nazione puntando sulla insicurezza. In particolare i cattolici congolesi denunciano che la Commissione Europea a novembre ha stanziato 20 milioni di dollari per sostenere l’esercito di Kigali nella lotta contro formazioni jihadiste nell’area di Cabo Delgado in Mozambico.
Situazione altrettanto complessa in Sud Sudan dove la spaccatura politica tra i due contendenti si fa sempre più profonda, alimentando ulteriori massacri, ferimenti, stupri, estorsioni, saccheggi, estorsioni in varie parti della più giovane nazione africana: nella regione dell’Alto Nilo, in Kordofan occidentale, negli stati federali di Jonglei e Unity. Altri 20 mila civili si sono aggiunti negli ultimi tempi alla enorme massa dei rifugiati sud sudanesi, la più grande del continente africano. Ai combattimenti tra le varie fazioni dell’esercito fedeli ai due leaders si intrecciano gli scontri interetnici e quelli generati da interessi politici locali. L’ingovernabilità è la cifra distintiva. Nello scorso ottobre il partito di governo (Splm) che sostiene Kiir ha deposto il suo vice Machar, manovra respinta dall’opposizione, ma che non contribuisce al sereno. Le elezioni previste per febbraio 2023 sono slittate a fine 2024 con l’obiettivo di riconfermare l’attuale presidente in carica dal 2011.
Papa Francesco dovrà armarsi della pazienza di Giobbe e sfoderare il meglio delle sue doti diplomatiche per districarsi in questo ginepraio di violenza.
Enzo Nucci
30 gennaio 2023
Fonte: Confronti