Annapolis, successo senza trionfalismo


La redazione


Il commento di Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente, sul vertice appena concluso. "Una opportunità importante, ma c’è ancora molto da fare per costruire la pace tra israeliani e palestinesi. Non era affatto scontato che si arrivasse ad una dichiarazione comune, sottoscritta solo a pochi minuti dall’inizio del vertice grazie alla pressione Usa. Naturalmente, gli sviluppi futuri di questo rapporto saranno determinati dallo sviluppo concreto dei negoziati con Gerusalemme".


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Annapolis, successo senza trionfalismo

Annapolis: è giusto evitare ogni trionfalismo, pensando che ogni problema tra israeliani e palestinesi sia oramai risolto. I problemi cominciano ora, e non si può prescindere dalla debolezza e dalla fragilità dei due partner negoziali.
Non si può sottovalutare tuttavia l’importanza di quanto è accaduto, contro le previsioni dei maggiori analisti internazionali. Non era affatto scontato che si arrivasse ad una dichiarazione comune, sottoscritta solo a pochi minuti dall’inizio del vertice grazie alla pressione Usa. Il low profile scelto da Condoleezza Rice e dallo stesso Bush ha finito per pagare.
La dichiarazione non entra nel merito dei problemi, ma dà avvio alle trattative sul final status, senza escludere alcuna delle questioni più delicate: lo stato palestinese, i confini, gli insediamenti, i rifugiati, Gerusalemme, l’acqua. I due premier continueranno a incontrarsi ogni quindici giorni, e i loro team negoziali affronteranno i negoziati nello specifico. Si farà ogni sforzo per concludere entro la fine del 2008 i negoziati, che prenderanno avvio il prossimo 12 dicembre.
Parallelamente, le parti si impegneranno a implementare la prima fase della road map, che prevede misure di fiducia quali l’impegno palestinese a contrastare il terrorismo e a disarmare le milizie armate, e quello contestuale israeliano che prevede tra l’altro il congelamento degli insediamenti e lo smantellamento degli avamposti “illegali”.
Ma la road map prevedeva che si potesse passare alla terza fase dei negoziati finali (vi era anche una seconda fase, con la creazione di uno stato palestinese con confini provvisori, che oggi sembra oramai abbandonata) solo quando le precedenti fossero state implementate: una logica dell’uovo e della gallina, che aveva sostanzialmente bloccato il processo. Oggi si prevede che prima e terza fase marcino in parallelo, anche se si afferma che l’accordo finale non sarà attuato se le misure di fiducia della road map non saranno state attuate.
Il collo di bottiglia che ostruiva il negoziato è stato così rimosso.
Viene altresì creato uno strumento a tre, sostenuto dai palestinesi e fortemente osteggiato dagli israeliani, destinato a monitorare l’implementazione della road map e che sarà guidato dagli Stati Uniti, ai quali viene attribuito il compito di “monitorare e giudicare” l’adempimento degli impegni di entrambe le parti.
L’altro elemento di grande rilievo è stata la partecipazione del mondo arabo. Numerosi stati arabi presenti, inclusa la Lega araba, e l’Arabia Saudita ha guidato di fatto la delegazione.
Ciò rappresenta una chiara scelta di campo, un appoggio deciso alla scelta negoziale di Abu Mazen, che parte dalla consapevolezza che da soli israeliani e palestinesi oggi non sono in grado di fare la pace, perché troppo deboli. Si è trattato di uno sviluppo conseguente del Piano arabo di pace, approvato a Beirut nel 2002 e recentemente rilanciato dal Vertice di Riad.
Tale scelta lascia naturalmente sguarnito e più debole il cosiddetto fronte del rifiuto. Quello che è di grande rilevanza è che la Siria ha scelto di stare dall’altra parte, ad Annapolis, dopo che erano state superate le resistenze statunitensi e israeliane a invitarla, togliendola dalla lista di prescrizione dei partecipanti all’“ asse del male”.
Certamente, si tratta di una scelta ancora incerta, condizionata alla effettiva volontà israeliana di aprire il negoziato sul Golan. Ma certo per quel paese si è trattato di una “occasione importante”, come ha dichiarato anche il suo rappresentante al vertice, che può avere ripercussioni significative sia sul Libano, ove è possibile che Damasco allenti la presa consentendo l’elezione di un presidente di compromesso, sia sui gruppi palestinesi più militanti, che hanno in quella città la loro residenza, a cominciare da Hamas e dallo jihad islamico.
Su questo aspetto sarebbe opportuno che anche Abu Mazen riflettesse a fondo, cogliendo proprio questa fase di difficoltà di quelle organizzazioni islamiche, testimoniato anche dai più recenti sondaggi, per riaprire il discorso sulla unità interpalestinese da una posizione di relativa forza. Una possibilità che Israele farebbe bene a non osteggiare pregiudizialmente, per non rischiare di portare avanti una trattativa destinata ad essere rimessa in discussione lo stesso giorno della firma. E che la comunità internazionale, dal Quartetto agli Usa all’Europa, farebbe bene a sostenere, invece di boicottarla come in passato.
Infine, la dislocazione siriana crea una situazione di tensione rispetto a Teheran, confermando che l’alleanza tra i due paesi aveva carattere prevalentemente tattico più che strategico. Naturalmente, gli sviluppi futuri di questo rapporto saranno determinati dallo sviluppo concreto dei negoziati con Gerusalemme. Va detto che il forcing iraniano nel proporsi come potenza egemone nell’area, con il suo programma nucleare e con la penetrazione portata avanti nell’ultimo anno prima in Libano e poi a Gaza, ha fortemente allarmato e urtato gli stati moderati sunniti, e in particolare l’Arabia Saudita che si propone come il suo più forte contender. Questo non significa, ovviamente, che Annapolis, secondo Ryad, debba rappresentare l’autorizzazione agli Usa o addirittura la pista di lancio per un possibile attacco a quel paese.

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento