Chi paga i talebani?


Giuliano Battiston


L’atto di accusa di Nur Ul-Haq Ulumi, ex comandante dei corpi militari di Kandahar durante il governo appoggiato dai comunisti, tra i fondatori nel 2007 dell’Hezb-e-Muttahed-e-Melli e, nella scorsa legislatura, presidente della Commissione Difesa del Parlamento.


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Chi paga i talebani?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kabul – “Chi paga i Talebani? Tutti li pagano, con strumenti diversi, direttamente e indirettamente. Anche gli italiani”. Non usa giri di parole il parlamentare Nur Ul-Haq Ulumi, autorevole esponente del panorama politico afgano, comandante dei corpi militari di Kandahar durante il governo appoggiato dai comunisti, tra i fondatori nel 2007 del partito Hezb-e-Muttahed-e-Melli (Fronte Unito nazionale), e, nella scorsa legislatura, presidente della Commissione Difesa del Parlamento. Che nel suo accogliente ufficio di Kabul ripete quel che qui in Afghanistan tutti sembrano sapere. E che tutte le cancellerie e i quartier generali occidentali negano da sempre con forza. Come hanno fatto il ministro degli Esteri Frattini e quello della Difesa La Russa nell’ottobre 2009, quando The Times accusò i militari italiani di stanza a Sorobi di aver pagato alcuni comandanti Talebani, fino al luglio 2008, per evitare di essere attaccati. L’ex generale comunista Ulumi torna sull’argomento: “Che si chiamino Talebani o meno, tutti pagano i movimenti anti-governativi. Lo si fa innanzitutto in maniera indiretta, perché per ogni attività da svolgere c’è bisogno di sicurezza”, e i soldi della sicurezza finiscono parzialmente nelle tasche della guerriglia. “Qualche tempo fa, sono stati stanziati 92 milioni di dollari per costruire una strada tra Khost e Kabul, di cui 42 per la sicurezza. Ma pagare le ditte di sicurezza private e i vari contractor vuol dire pagare gli insorti affinché non creino problemi”. Si tratta di un pericoloso circolo vizioso: i barbuti col turbante nero si sconfiggono anche con la ricostruzione del paese, con infrastrutture e sviluppo economico. Ma per farlo occorre affidarsi a una rete di protezione che alimenta vecchi e nuovi signori della guerra, come documentato alcuni mesi fa da Aram Roston su The Nation, e poi dal rapporto Warlord Inc. presentato al Congresso americano dal Sottocomitato per la sicurezza nazionale. Ieri invece è stato Azizullah Ludin, capo dell’Ufficio anticorruzione afghano, a sollecitare il governo a verificare con più accuratezza dove finiscano i soldi dei contratti stipulati con i donatori internazionali. E ad ammettere che per la costruzione di una strada nella provincia di Logar sono stati pagati i Talebani, che trarrebbero beneficio anche dagli aiuti allo sviluppo. Niente di nuovo per Ulumi, che rincara la dose: oltre a quelle indirette, “ci sono le forme dirette di pagamento, che avvengono comprando i comandanti Talebani. In Afghanistan tutti hanno la propria rete di intelligence, con cui vengono ‘assunti’ i comandanti per tenerli calmi e assicurarsi la loro cooperazione. Lo si fa per salvaguardare la vita dei soldati e mostrare all’opinione pubblica interna che si sta facendo un buon lavoro. Succede dovunque, al Nord come al Sud, all’Est come all’Ovest”. L’Ovest è la zona sotto responsabilità italiana, che gestisce il Comando regionale occidentale, a cui fanno riferimento le province di Baghdis, Ghor, Farah ed Herat. Chiediamo a Ulumi se anche gli italiani siano coinvolti nei pagamenti: “le persone con cui ho contatti mi dicono di sì. E’ un fenomeno che avviene anche lì. E perchè no? Tutti sanno dei pagamenti effettuati in passato dagli italiani nella zona di Shindand. Certo, molti soldati e perfino ufficiali potrebbero non esserne a conoscenza, ma è così che funziona”, perché contestualmente alla mano militare “c’è un’altra che lavora in questo senso, ‘dentro’ e con gli insorti, pagandoli. Ci si limita a combattere quei gruppi con cui non si hanno rapporti stabili”, assicura Nur Ul-Haq Ulumi. Per il quale quella militare è solo una delle tante forme di corruzione che affligge il suo paese, in primo luogo il governo: “ministri, comandanti militari, funzionari, tutti si preoccupano del proprio portafoglio, piuttosto che dell’interesse generale; la corruzione investe ogni aspetto della vita statale, dall’esecutivo al giudiziario”. Anche nel settore giudiziario, che l’Italia aveva il compito di riformare e consolidare, le cose non andrebbero per niente bene: “sono tutti corrotti. I cittadini non sanno a chi rivolgersi. Ci sono viceministri che, pur condannati, continuano a lavorare come niente fosse. Una volta, racconta, per evitare di finire in prigione bisognava sborsare 10000 dollari al giudice di turno, oggi invece ne servono 15000, perché il pagamento non avviene più per vie dirette, ma passa per una specie di ‘commissione’, a cui spetta una percentuale”. Per Ulumi, da questo punto di vista la situazione è cambiata, “ma in peggio per la popolazione afghana”, che deve fare i conti con un presidente, Karzai, “che non crede nella democrazia e non ha intenzione di sostenere le istituzioni democratiche, come i partiti, e che piuttosto promuove un Afghanistan basato sulla tribalizzazione”. Alle colpe del governo locale, vanno aggiunte quelle della comunità internazionale, che “continua ad appoggiare i signori della guerra, fornendo soldi e armi alle milizie e alle polizie locali, sostenendo gente che non crede affatto nella democrazia e nella Costituzione. Dicono che in questo modo si stabilizza il paese e si mantiene la sicurezza, ma come fare a stabilizzarlo se un mucchio di soldi finiscono nelle mani delle mafie che gestiscono le droghe e controllano la terra?”. Ulumi chiede un cambio di registro da parte della comunità internazionale, “percepita dagli afghani come una macchina che uccide, e che si dimentica della ricostruzione”: concedendo tutto ai ‘lupi’, ai movimenti anti-governativi, “e dimenticando le ‘pecore’, la maggior parte della popolazione, che soffre i bombardamenti, la mancaza di sicurezza e di lavoro, la povertà”, sostiene Ulumi, l’Afghanistan rimarrà in uno stato di stallo. Per uscirne, occorrerebbe “puntare ai progressisti, agli intellettuali, ai democratici presenti nella società civile, nei partiti, nelle organizzazioni dei diritti umani, che vanno coinvolti, ma non in modo cerimoniale”. Inoltre, servirebbe un po’ di franchezza: “sappiamo che gli stranieri sono qui per altre ragioni oltre alla lotta al terrorismo, che andrebbe condotta in primo luogo in Pakistan e attraverso pressioni sui servizi pakistani. In terra afghana è cominciato un nuovo ‘great game’, legato a interessi strategici e gepolitici. Non sappiamo quando finirà, ma è ora di parlarne chiaramente”. Dovrebbero farlo innanzitutto gli Stati Uniti, per esempio a proposito della base militare permanente che, secondo diverse fonti, avrebbero cominciato a costruire nei dintorni di Mazar-e-Sharif. “Certo che si farà, tutti i miliardi di dollari spesi in Afghanistan dovranno pur servire a qualcosa”, conclude sarcastico l’ex generale comunista.

Fonte: Lettera22, il riformista

8 aprile 2011

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