8 anni senza Padre Paolo
Riccardo Cristiano
Alla fine, dopo otto anni, sul sequestro di padre Paolo Dall’Oglio sembra che non sia rimasto nulla da dire, solo da ripetere. E non sempre ripetersi giova. E invece la sua storia è una cava
Alla fine, dopo otto anni, sul sequestro di padre Paolo Dall’Oglio sembra che non sia rimasto nulla da dire, solo da ripetere. E non sempre ripetersi giova. E invece la sua storia è una cava, una miniera a cielo aperto alla quale basta affacciarsi perché emerga qualcosa. Ma anche questo non basta, perché essendo tutto aleatorio, incerto, la domanda “vero o falso?” spegne ogni curiosità. Eppure è importante che Muhammad al Saleh, l’uomo che accompagnava Paolo in quei giorni a Raqqa mentre cercava il bandolo di un possibile contatto con i capi dell’Isis, affermi che Paolo portava una lettera per i capi dei terroristi scritta dal Presidente del governo dei curdi iracheni. Vero, falso? Non lo sappiamo, ma l’autorevolezza della fonte dovrebbe spronare a chiedere almeno conferma dai questo alla leadership curda. E’ vero? E’ falso? E’ importante perché in quei giorni già si vedeva in tutta la sua devastante gravità l’ipotesi di un pieno conflitto tra curdi e Isis, con il carico di odio, connivenze, coinvolgimenti, massacri che tutti sappiamo. E colpisce che il 20 luglio 2013, nel take d’agenzia con cui la Reuters informava del suo sequestro, si affermi che la leadership dell’Isis era irritata dalla condanna di Dall’Oglio di un massacro di curdi siriani avvenuto proprio in quei giorni a Tal Abyad.
In questi giorni ho incontrato un rifugiato siriano che vive in Europa. Mi ha cercato per dirmi che, a suo dire, vide Dall’Oglio in una prigione dell’Isis, nel loro quartier generale, quello dove Paolo cercava di entrare da giorni. Furono insieme nella stessa cella e da tempo afferma di voler far sapere che è l’Isis che lo ha sequestrato sebbene non lo abbia mai ammesso, né abbia rivendicato l’azione, figurarsi l’assassinio. Paolo per i siriani era un mito (e su questo le Chiese siriane dovrebbero riflettere).
Ma la cosa interessante è che secondo il suo racconto a lui, prigioniero dell’Isis, qualcuno avrebbe detto che quello straniero era stato condannato perché lavorava con la stampa, nel mondo dell’informazione. Evidentemente dicendo cose non gradite. Se, come io non so, questa persona avesse davvero sentito questa voce e questa voce fosse vera, il soffermarsi della Reuters sulla sua accusa sul massacro dei curdi di Tal Abyad avrebbe maggiore significato. E il peso di quella lettera del leader curdo ai capi dell’Isis sarebbe altro. “Ambasciator non pena” è un detto che presso l’Isis pochi conosceranno e certamente nessuno rispetterà. Ma chi sono, chi erano, i leader dell’Isis, e chi sarebbero i loro successori che si teme arrivino? Il mio interlocutore, un infermiere siriano che fuggì da Raqqa nel 2015, mi ha detto che tutti a Raqqa sapevano che l’Isis era infiltrato da tanti servizi segreti, soprattutto quelli siriani. La teoria del “nemico perfetto”, quello con cui giustificare ogni crimine del regime, non è nuova. Molto scrivono di prove, ma il riassetto dei territori curdi riguarda tanti, troppi. Riguarda la Siria, la Turchia, l’Iraq, l’Iran, e questo rende l’ipotesi di quella lettera una mina che ballava sotto tanti tavoli, tanti timori, tanti progetti. Ma per Paolo dietro quella sottile speranza, se c’era, ballava il destino di milioni di esseri umani. E il deflagrare oltre confine di un conflitto più grande.
Quel conflitto oggi dilaga davvero. La piovra di una violenza non affrontata come avrebbe dovuto essere e in tutte le sue manifestazioni, ha avvelenato migliaia di altri pozzi. E le fiamme divampano nella crisi libanese, in quella irachena, nella guerra dello Yemen e nel proseguimento di questi conflitti in altri conflitti che fanno della guerra non il proseguimento della diplomazia con metodi diversi, ma un proseguimento della politica ormai finita. Dunque Dall’Oglio andando a Raqqa non voleva fare l’eroe, “il gradasso”: era un uomo consapevole dell’enormità della sfida, nella quale ci siamo anche noi, e non si è tirato indietro. Perché lui credeva nel vivere, non nel tirare a campare. Lo credeva per sé come per gli altri. E si è assunto le sue responsabilità, fino in fondo, benché chiunque gli dicesse di non farlo. Ha creduto nella sua missione di prete. Noi dovremmo credere nella nostra, più piccola: quella di appurare quale fosse davvero la sua. E chi lo abbia voluto fermare. Dietro la necessaria, indispensabile ricerca della verità sul suo destino c’è anche questo.