Annapolis. La sfida: "Pace entro il 2008"
Umberto De Giovannangeli - L'Unità
Non è stata una «photo opportunity». Ma un Nuovo Inizio. Importante. Impegnativo. La pace in Medio Oriente riparte da Annapolis. Non era scontato. Non era scontata la partecipazione di tanti Paesi arabi di primo piano -come Arabia Saudita e Siria- che non si erano mai seduti in una riunione che discuteva di pace assieme a Israele.
Non è stata una «photo opportunity». Ma un Nuovo Inizio. Importante. Impegnativo. La pace in Medio Oriente riparte da Annapolis. Non era scontato. Non era scontata la partecipazione di tanti Paesi arabi di primo piano – come Arabia Saudita e Siria – che non si erano mai seduti in una riunione che discuteva di pace assieme a Israele. Sono parole, certamente. Ma quelle riecheggiate nel lontano Maryland sono state parole di speranza, merce rara in un Medio Oriente abituato a ben altro, e più terribile, linguaggio.
È quello della violenza, del terrore, delle disastrose guerre preventive. Dopo sette anni, il processo di pace si rimette in movimento. Non sarà un cammino facile, in discesa. Come spesso è accaduto nel tormentato scenario mediorientale, quando il dialogo si rafforza, quando l’accordo si fa più concreto, i nemici della pace, e i loro munifici protettori, tornano in azione, seminando morte e terrore. È bene ricordarlo, oggi che il vento della speranza torna a spirare. I negoziati bilaterali che da Annapolis prendono le mosse dovranno affrontare questioni cruciali, dirimenti, di non facile soluzione: Gerusalemme, i profughi, le frontiere, gli insediamenti, la sicurezza e l'acqua. Non sarà facile. Tuttavia ad Annapolis si sono gettate le basi per un compromesso possibile, rispettoso dei diritti, ugualmente fondati: il diritto alla sicurezza di Israele, il diritto ad uno Stato indipendente per i palestinesi. «Israeliani e palestinesi hanno leader determinati a raggiungere la pace», riconosce George W.Bush. È vero. È così. Ma è altrettanto vero che da soli, Ehud Olmert e Abu Mazen, non possono farcela.
Per questo la «sfida di Annapolis» riguarda tutti noi. Riguarda la diplomazia degli Stati come quella dei popoli. E impegna l’Europa che sul fronte israelo-palestinese è chiamata ad esercitare lo stesso protagonismo manifestato, sul campo, in Libano. E il primo impegno è quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese, nella Striscia di Gaza: tante volte si è parlato in passato di un «Piano Marshall» per la ricostruzione nei Territori. È tempo di realizzarlo. La sfida della pace lanciata da Annapolis è un impegno che deve riguardare tutta la Comunità internazionale; ed è un impegno che non ammette «diserzioni». In Medio Oriente, recita un vecchio assunto, non si è persa occasione per perdere l’Occasione della pace. Stavolta l’Occasione è irripetibile. Perché l’alternativa ad una pace giusta, tra pari, non è il mantenimento dell’attuale status quo ma un nuovo, devastante conflitto che investirebbe l’intera regione. Olmert e Abu Mazen ne sono consapevoli, e anche per questo hanno investito sul dialogo.
Annapolis non è la Soluzione. Non poteva né doveva esserlo. Ma Annapolis ha fatto i conti con i fallimenti passati. E ha abbozzato dei correttivi. Su due punti sostanziali: tempo e sbocco finale del negoziato. Tempo significa che occorre indicare, da subito, il «quando» concludere il processo negoziale: entro la fine del 2008, si sono impegnati Olmert e Abu Mazen. È la prima volta che ciò accade. Così per lo sbocco finale: esplicitato sin dall’inizio del negoziato. Lo sbocco è quello di due popoli, due Stati. La gradualità è nell’attuazione delle intese non nella determinazione finale. Ad Annapolis si è parlato il linguaggio della verità. E la verità, per Israele, che non esiste una pace a costo zero. La verità, per i palestinesi, è che la rivendicazione di diritti, come quello al ritorno dei rifugiati, non può essere usato per scardinare l’identità ebraica dello Stato d’Israele. La pace è un incontro a metà strada. È un insopprimibile bisogno di normalità che ha la meglio sui disegni del Grande Israele o della Grande Palestina. Ma la pace evocata ad Annapolis è anche molto di più di un’assenza di guerra. È il volano per cambiare il volto del Medio Oriente, per rompere barriere fisiche e mentali, per abbattere i «muri» del pregiudizio e dell’ostilità.
La sfida di Annapolis vede in prima fila l’America. E il suo presidente. George W.Bush ha svolto un discorso coraggioso, si è assunto impegni gravosi, ha ricordato all’alleato israeliano che la nascita di uno Stato palestinese rafforza la sicurezza stessa dello Stato ebraico. Di ciò gli va dato atto. Forse vuol lasciare di sé il ricordo di un presidente che ha «conquistato» la pace e non del leader che ha trascinato il suo Paese nel «nuovo Vietnam» mediorientale: l’Iraq. Se anche fosse così, mai ambizione personale sarebbe più fruttuosa. Per il futuro di due popoli. Per la pace dei coraggiosi.
Fonte: L'Unità
28/11/2007