Afghanistan, come cambia la strategia


Emanuele Giordana - Lettera22


Se l’attentato di ieri a Kabul rientra, bene o male, nella routine della guerra afgana, l’assalto al compound dell’Onu di due giorni fa, le manifestazioni nello stesso giorno a Kabul ed Herat e i fatti di ieri a Kandahar, indicano invece un salto di qualità o, quantomeno, la nascita di una nuova strategia della guerriglia, o di parte di essa…


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Afghanistan, come cambia la strategia

Kabul – Se l'attentato di ieri a Kabul rientra, bene o male, nella routine della guerra afgana, l'assalto al compound dell'Onu di due giorni fa, le manifestazioni nello stesso giorno a Kabul ed Herat e i fatti di ieri a Kandahar, indicano invece un salto di qualità o, quantomeno, la nascita di una nuova strategia della guerriglia, o di parte di essa.
La dinamica dell'assalto di Mazar-i-Sharif non è ancora chiara ma la concomitanza di tre manifestazioni in tre diverse città del Paese potrebbe svelare un piano probabilmente architettato con l'intento evidente di dare una copertura di massa a un'azione del commando: una novità nella tecnica guerrigliera talebana. I talebani non hanno mai cercato coperture di massa e l'azione dell'altro ieri indica un cambiamento di strategia e denuncia al contempo una debolezza: la necessità di simulare consenso o di far apparire che le azioni armate e violente ne abbiano tra la popolazione civile. Un tentativo evidentemente smascherato dai numeri e dalle foto che immortalano soprattutto ragazzi giovani (i talebani hanno un certo seguito tra gli studenti universitari) e qualche centinaia di persone, non mobilitazioni di massa gigantesche come quelle che abbiamo visto in Nord Africa o in Medio oriente.

I talebani non hanno rivendicato l'azione di Mazar sostenendo anzi che si era trattato di una manifestazione di rabbia spontanea di sinceri musulmani, una dichiarazione politicamente efficace ma poco convincente. Le manifestazioni spontanee (che possono ovviamente anche essere teleguidate o manipolate) se anche si trasformano in azione violenta, raramente arrivano a tanto: una manifestazione spontanea che diventa violenta si trasforma in sassaiola, lancio di benzina, forse anche omicidio di qualche poliziotto o dimostrante ma da qui ad assalire un compound difeso da guardie armate, fare irruzione e uccidere e sgozzare chi c'è dentro (sembra almeno uno dei funzionari) ce ne corre. Queste sono azioni da commando, preparate. E non con sassi, con armi vere. A Mazar-i-sharif, che non ha una tradizione di violenza e nemmeno di occupazione talebana, una manifestazione per il Corano si può capire e accettare e si può capire e accettare che diventi violenta. Che si trasformi in un'azione di guerra però no. Più facile pensare che, con la copertura di massa del corteo, un commando pre organizzato infiltrato (chi ha pratica di “piazze” sa cosa significa) abbia sfruttato se non architettato un piano ben congegnato per sfruttare la rabbia, surriscaldare gli animi, cavalcare la possibile scia delle rivoluzione arabe e far credere che la lotta armata abbia molto consenso. Il che dimostra semmai tutto il contrario.
A Kandahar forse è andata diversamente. La città è ad altissima infiltrazione talebana, la gente che vi abita è frustrata e rabbiosa con le forze occupanti (e forse anche coi talebani), e può bastare poco a rendere violenta una manifestazione. Ma a Kandahar, dove la rabbia era chissà quanto spontanea, non ci sono stati assalti e i morti sono solo tra i manifestanti.

Ciò che deve far riflettere riguarda forse tre questioni: la prima è che ci si deve aspettare, visto che sta per partire la transazione delle province in mano afgane e un primo ritiro americano a luglio, recrudescenza guerrigliera nei prossimi mesi. Il secondo è che i fatti recenti indicano una nuova strategia che vuole corteggiare il consenso popolare o, meglio, far passare la violenza come una diretta espressione della collera popolare. Il terzo è che il fronte della guerra si è lentamente spostato anche nel Nord “pacificato” del Paese ma con tattiche molto diverse rispetto alla guerra nel Sud, la vera roccaforte dei talebani fedeli a mullah Omar e alla Shura di Quetta, l'ala tradizionalista e “territorialista” dei talebani, che privilegiano la guerra di terreno e le mine sul ciglio delle strade (Ied) alle azioni kamikaze , di cui fanno un utilizzo mirato.
Nel Nord invece si spara spesso nel mucchio: la guerriglia è più debole e l'aera è meno sensibile al richiamo talebano. In questa zona la Shura di Quetta ha scarsa influenza anche se l'azione dell'altro ieri potrebbe avere questa matrice. Nel Nord la situazione è disomogenea: dominano signorotti della guerra e mafie locali e il vecchio Gulbuddin Hekmatyar, un mujaheddin dell'epoca della guerra all'Urss e che si è prima battuto contro i talebani per poi allearvisi. In quell'area ci sono anche infiltrazioni dal Pakistan di gruppi radicali che sfuggono al controllo della Shura di Quetta e forse dello stesso Hekmatyar e che potrebbero avere legami con i filoqaedisti della famiglia Haqqani, che vive in Pakistan e controlla parte dell'Est afgano. Gli Haqqani privilegiano le azioni di commando esemplari, gli attacchi suicidi, la strategia del terrore: una scelta che li ha messi in rotta di collisione con molte altre fazioni talebane. In questo scenario il consenso è una carta fondamentale, soprattutto per la Shura di Quetta, il gruppo più strutturato politicamente. Una chiave per leggere quanto succede in queste ore.

Fonte: Lettera22, terra

3 aprile 2011

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