Vite in isolamento
Michele Giorgio
Palestina: la frammentazione del territorio e dell’esistenza per milioni di civili sotto occupazione spiegata in «Una vita in isolamento», la prima di tre serie di rapporti della ong italiana Cospe.
Nawal non riesce a dimenticarlo. Due anni fa, come in questi giorni, in Israele si festeggiava la Pasqua ebraica. È un periodo dell’anno in cui la chiusura dei Territori palestinesi occupati è più rigida del solito. E l’esercito israeliano aggiunge altre restrizioni ai movimenti dei palestinesi. «Mio figlio – racconta – tornava da Ramallah ma a un posto di blocco (israeliano) è stato bloccato e obbligato ad aspettare fino al giorno seguente». Anche Majida ha memorie legate a quei giorni. «Ero all’ospedale e un amico voleva farmi visita. Ha lasciato il villaggio in macchina, ha percorso quasi tutta la strada e a un certo punto non solo gli è stato impedito di attraversare un posto di blocco ma ha anche dovuto passare accanto a un gruppo di coloni (israeliani) che gli hanno tirato sassi».
Episodi non isolati quelli che raccontano Nawal e Majida. Sono solo un aspetto delle molteplici conseguenze della frammentazione del territorio palestinese e della quotidianità per milioni di civili sotto occupazione militare israeliana. Una ragnatela di arterie stradali costruite a beneficio dei coloni, posti di blocco permanenti o occasionali, «aree di sicurezza» attorno agli insediamenti israeliani e il Muro di separazione, complicano ogni anno di più l’esistenza dei palestinesi. Un percorso a ostacoli che lascia indifferente la comunità internazionale. Lo denunciano gli autori di «Una vita in isolamento», la prima di tre serie di rapporti della ong italiana Cospe (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti) – scritti in collaborazione con Giuristi Democratici, Operazione Colomba, Isgi, Aveprobi e realizzati insieme a Palestinian Youth Union e Acad, nell’ambito del progetto «Terra e diritti» finanziato dalla Aics, l’agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo – che riferiscono storie di comunità circondate da colonie e basi militari israeliane e di civili costretti a fare i conti non di rado anche con l’umore dei militari incaricati della loro «sorveglianza».
Storie che però riflettono anche la resilienza dei palestinesi, decisi a vivere e a restare nella loro terra.
Nawal e Majida sono di Beit Iksa e Nabi Samwil, piccoli villaggi appena fuori Gerusalemme eppure così lontani dalla città santa a causa delle restrizioni ai movimenti messe in campo dalle autorità israeliane. La condizione di questi due centri traccia, in un piano più ampio, il rigido perimetro in cui si svolge l’esistenza dei palestinesi, 28 anni dopo la firma degli Accordi di Oslo. Quelle intese del 1993-94 che fecero sognare agli occupati un futuro di indipendenza e di libertà, dopo la suddivisione della Cisgiordania in zone A, B e C – controllo amministrativo palestinese; controllo misto israelo-palestinese; controllo pieno di Israele (del 60% del territorio) –, non hanno prodotto altro che cantoni palestinesi, invivibili e insostenibili, gestiti in apparenza dall’Anp del presidente Abu Mazen e che restano saldamente nelle mani di Israele.
La costruzione del Muro, la confisca progressiva delle sue terre e l’espansione delle colonie circostanti, hanno trasformato Beit Iksa (1900 abitanti) in una zona chiusa e isolata. Lo stesso vale per Nabi Samwil. Non è diverso il destino di Tuba, a Sud di Hebron. Un tempo la lontananza di questo piccolo villaggio dai centri urbani era una benedizione, oggi è un rischio. I suoi abitanti fanno i conti con le restrizioni imposte dalla presenza di aree di addestramento militare e devono affrontare anche le intimidazioni dei coloni.
Michele Giorgio
Il Manifesto
31 marzo 2021