Via le truppe. Nato e Usa ci ripensano?
il Manifesto
Afghanistan. «Troppo affrettato» dicono. Ghani: «Rispettare l’accordo significa avere la pace».
La Nato vuole guadagnare tempo sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan, per un’uscita meno disonorevole, ma i Talebani ribadiscono che c’è già un accordo firmato con gli americani e va rispettato: via le truppe entro due mesi e mezzo.
È una delle eredità di politica internazionale dell’ex presidente Trump, e una delle questioni che oggi e domani dovranno affrontare i ministri della Difesa della Nato nel loro incontro virtuale. L’accordo bilaterale tra Talebani e Usa, voluto da Trump e firmato a Doha nel febbraio 2020, prevede che tutte le truppe straniere, fino all’ultimo soldato, vengano ritirate entro la fine dell’aprile 2021.
Ma al quartier generale della Nato, e forse alla Casa Bianca, quel calendario non va più bene. Troppo affrettato, ripetono in tanti, a dispetto di una presenza militare durata ben 20 anni e che ha visto fino a 150.000 soldati stranieri sul terreno. Oggi ce ne sono poco meno di 10.000, di cui 2.500 statunitensi, il numero più basso dal 2001, grazie alle scelte di Trump. Che ora ricadono sul successore, Joe Biden, e sulla Nato.
Il segretario generale, Jean Stoltenberg, già lunedì scorso ha illustrato la posizione dell’Alleanza atlantica, che «sostiene fortemente il processo di pace in Afghanistan», lo considera «la migliore occasione per una soluzione politica duratura», ma ritiene «il livello di violenza inaccettabilmente alto, inclusi gli attacchi dei Talebani ai civili». Ai Talebani Stoltenberg ha chiesto di «ridurre la violenza, negoziare in buona fede e rispettare gli accordi terminando la cooperazione con i gruppi terroristici internazionali».
Una posizione che verrà confermata giovedì. Serve alla Nato per guadagnare tempo e concederne altro a Joe Biden, nell’attesa che la nuova amministrazione americana annunci cosa intende fare degli ultimi 2.500 soldati e dell’accordo di Doha con i Talebani. Dall’incontro dei ministri della Difesa ci si aspetta non tanto una data alternativa per il ritiro completo delle truppe, ma un’unica voce per esercitare pressioni sui Talebani e un’insistenza particolare sul legame tra ritiro completo e rispetto degli impegni da parte degli studenti coranici.
«La nostra presenza è basata sulle condizioni (sul terreno, ndr)», non a un calendario, ha dichiarato Stoltenberg, per il quale «nessun alleato vuole restare in Afghanistan più del necessario, ma non ce ne andremo prima che i tempi siano giusti». Parole accolte con entusiasmo dal ministero degli Affari esteri e dal governo afghano, che ieri ha sottolineato di aver fatto tutto il possibile per favorire il processo di pace, «incluso il rilascio di migliaia di prigionieri Talebani», mentre questi ultimi non avrebbero rispettato gli accordi.
Il numero due del movimento, mullah Abdul Ghani Baradar, sostiene il contrario nella lettera aperta inviata ieri ai cittadini statunitensi. Ai quali si rivolge ricorrendo alla retorica rassicurante adottata negli ultimi anni: «vogliamo vivere liberi dalla paura di minacce, invasioni e attacchi», come ogni popolo; «non faremo discriminazioni, rispetteremo i diritti delle donne, la libertà di espressione. Siamo interessati davvero alla pace». Poi, la puntualizzazione: «rispettare l’accordo di Doha è il modo migliore per mettere fine alla guerra». Più che una minaccia, un modo per alzare la posta in gioco. I Talebani potrebbero accettare un prolungamento di qualche mese della presenza delle truppe, ma in cambio di incentivi significativi, come la rimozione dalle liste «nere» dell’Onu, il rilascio di altri detenuti o la nascita di un governo a interim che siluri uno dei loro nemici, il presidente Ashraf Ghani.
Giuliano Battiston
Il Manifesto
17 febbraio 2021