In Bosnia la frontiera del diritto


il Manifesto


Le migliaia di disperati bloccati al confine con la Croazia hanno perso la libertà di movimento, un principio fondamentale per l’Europa che oggi viene negato ai più poveri


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Non ho mai visto nessuno morire di febbre o di dolori alla schiena». Quelle parole rimbombano ancora nella testa di Mohammed. Una pugnalata da chi pensava fosse lì ad aiutarlo. «Ho pianto quella notte» racconta con il filo di voce che gli è rimasta. Mohammed, 30 anni, pakistano, si è ammalato pochi giorni dopo l’incendio che il 23 dicembre scorso ha devastato il campo profughi di Lipa, lasciando all’addiaccio quasi un migliaio di persone.|.

«Ho la febbre da dieci giorni, ho implorato che mi dessero delle medicine. Quel giorno non riuscivo nemmeno a respirare, avevo freddo». Tutto quello che Mohammed è riuscito ad ottenere è stata una risposta sprezzante e delle pillole di ibuprofene mandate giù a stomaco vuoto. «Non mangiavo da tre giorni, l’ultima volta che ho fatto una doccia è stato 15 giorni fa, l’ultima volta che ho cambiato i vestiti è stato 15 giorni fa, l’ultima volta che ho parlato con la mia famiglia è stato 15 giorni fa».

Quindici giorni: un lasso di tempo interminabile per i dannati di Lipa che hanno perso il poco che avevano nell’incendio divampato nella tendopoli.

E mentre il mondo brindava con speranza all’arrivo del nuovo anno, la speranza dei migranti di trovare un po’ di sollievo alla loro sofferenza è svanita completamente dopo l’ennesimo braccio di ferro tra Ue, organizzazioni umanitarie e autorità bosniache.
«Si sgombera il campo», era stato annunciato sul finire dell’anno. I profughi erano già pronti a lasciarsi alle spalle l’incubo di quei giorni, ma gli autobus arrivati lì per portarli in un’ex caserma di Bradina, villaggio di Konjic a sud di Sarajevo, non sono mai partiti.

Sarajevo non è riuscita a superare l’opposizione delle autorità locali e dei residenti di Bradina accorsi davanti alla struttura militare per manifestare contro l’arrivo di ospiti indesiderati.

E così i migranti sono ripiombati nell’incubo. La Bosnia ha fatto l’ennesimo, vano tentativo di riportare i migranti a Bihac, cittadina al confine con la Croazia dove l’Agenzia dell’Onu per le Migrazioni (Oim) gestiva fino al settembre scorso un centro di accoglienza allestito nell’ex fabbrica di Bira. Il sindaco di Bihac Suhret Fazlic, sceso in piazza con i residenti a protestare, però si è opposto. Il peso dell’emergenza è ricaduto interamente sulla città, ha ripetuto Fazlic, ma i soldi per la gestione della crisi non sono mai arrivati, né quelli dell’Europa né quelli del governo.

Così Sarajevo si è arresa e ha mandato dei militari sul posto per allestire delle tende sulle rovine del campo, impastate di fango e ghiaccio, dove continuano a sciamare corpi sfigurati dal freddo e dalle torture inflitte dalla polizia croata ai confini.
«Non ci sono materassi, né letti, al campo non c’è acqua, né elettricità», continua Mohammed. «Ho paura, non so cosa ne sarà di noi. Siamo soli, lontani dalle nostre famiglie. È vero, siamo poveri, ma la povertà non è una colpa».

Nei giorni scorsi l’Ue ha stanziato 3.5 milioni di euro per far fronte alla catastrofe umanitaria che coinvolge oltre agli sfollati di Lipa, anche altri duemila migranti rimasti fuori dai centri d’accoglienza in Bosnia. Soldi che si aggiungono agli 88 milioni di euro che dal 2018 l’Europa ha donato principalmente all’Oim per gestire la crisi dei migranti in Bosnia.

«Una situazione inaccettabile» ha tuonato l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri Josep Borrell che in un lungo post ha denunciato l’inezia delle autorità bosniache e ha lamentato la violazione dei diritti umani dei migranti da parte della Bosnia.
«L’Europa ha solo spostato il problema dei migranti alle sue frontiere – commenta la scrittrice bosniaca Elvira Mujcic – ma se migliaia di persone si trovano oggi in queste condizioni è perché l’Ue quelle frontiere le ha chiuse. È un film già visto: l’Europa ha messo sotto il tappeto le proprie responsabilità durante la guerra in Bosnia che pure avveniva sul suolo europeo, e lo fa anche oggi: decidere di fermare il flusso non è qualcosa che può avvenire in maniera indolore».

Non vuole trovare giustificazioni a decisioni che non hanno alibi Mujcic, ma il contesto è importante per capire in che misura vadano ripartite le responsabilità della tragedia in corso: «In tante aree del Paese – prosegue la scrittrice – ci sono infrastrutture segnate dal logorio del tempo o perché costruite dopo la seconda guerra mondiale o perché distrutte dalla guerra degli anni Novanta. In alcuni quartieri della capitale manca l’allacciamento idrico e la rete fognaria. Senza parlare poi del fatto che la Bosnia stessa conta migliaia di sfollati interni che da 25 anni aspettano di avere una casa».

Solo nel cantone di Sarajevo gli sfollati del conflitto sono tra gli 8 e i 9mila, quasi lo stesso numero dei migranti in transito sul territorio bosniaco. «L’emergenza dei migranti – prosegue Mujcic – si aggiunge all’altra emergenza in cui si è voluto mantenere il Paese dalla fine della guerra. Gli stessi bosniaci hanno iniziato a emigrare in Europa davanti all’immobilismo di un dopoguerra che non passa mai».

La questione, prosegue la scrittrice e autrice tra l’altro di «Consigli per essere un bravo immigrato», non sono le risorse stanziate dall’Ue, ma il riconoscimento di un diritto, quello alla libertà di movimento, che viene negato a chi proviene da Paesi poveri: «Il mondo capitalista non guarda ai diritti dell’uomo, tutt’al più guarda ai cittadini e li divide in cittadini di serie A e di serie B, in expat e migranti economici. Noi stessi siamo portati a fare questa differenza, a strutturare il nostro rapporto con l’Altro in una logica di subordinazione. Persino la solidarietà è qualcosa che viene concessa e la parola concedere è essa stessa fuorviante: tu non concedi nulla che hai tolto. L’Europa non riconosce il diritto a muoversi di persone che vengono da determinate aree del mondo e si fa passare questo riconoscimento per una concessione. Qui nasce la follia, qui nasce quella narrazione dell’Altro che vuole un migrante non abbastanza migrante se ha un telefonino o non è abbastanza magro. E quelle persone che premono alle frontiere in mezzo al fango e alle torture stanno lì a ricordarci una cosa: non c’è diritto negato che non possa essere riconquistato».

Alessandra Briganti
Il Manifesto
9 gennaio 2021

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