Etiopia, incubo scudi umani
Avvenire
Nella “capitale” vivono 500mila abitanti. Scaduto l’ultimatum alla provincia ribelle, la diplomazia internazionale cerca di scongiurare il massacro: una delegazione dell’Unione Africana ad Addis Abeba
Scaduto l’ultimatum di 72 ore del premier etiope Abiy Ahmed ai leader del partito del Fronte di liberazione popolare del Tigrai (Tplf), è cominciata la terza fase dell’offensiva lanciata Addis Abeba che prevede la presa del capoluogo regionale Macallè. Il blackout informativo, che ha oscurato telefoni e web dal 4 di novembre, impedisce di verificare le notizie.
Secondo il governo di Addis Abeba, le forze di difesa nazionale etiopi hanno preso il controllo di luoghi strategici come la centrale eolica di Ashoda e ieri sera si trovavano a circa 20 chilometri dalla “capitale” Macallè, dove vivono 500.000 persone la cui sorte tiene in ansia il mondo.
L’esercito federale etiope ha intenzione di entrare a Macallè per catturare i leader tigrini, ma l’offensiva potrebbe provocare vittime civili nonostante le garanzie fornite dal premier etiope Premio Nobel per la pace nel 2019. «In questa fase finale – ha twittato ieri il capo del governo di Addis Abeba – grande cura sarà messa per proteggere i civili innocenti, tutti gli sforzi saranno fatti per assicurarsi che la città non sia gravemente danneggiata».
Alcuni resoconti dell’Onu descrivono colonne di abitanti in fuga dalla città e si teme che, dando credito alle minacce del Tplf di scatenare la guerriglia, siano state distribuite armi alla popolazione e che questa venga usata anche come “scudo umano” da parte del governo tigrino o che l’esercito etiope colpisca senza distinzioni. Intanto una delegazione di alto livello dell’Unione Africana è impegnata a riattivare il difficile dialogo ad Addis Abeba.
Anche se il premier etiope ha dichiarato che non potranno parlare con i leader del Tplf perché il conflitto rimane una questione interna (i due governi si considerano illegali), i Paesi africani hanno chiesto al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, convocato ieri in riunione d’emergenza, più tempo per proseguire gli sforzi diplomatici.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si è detto profondamente preoccupato per la situazione e per la sorte della popolazione e ha dichiarato di sostenere gli sforzi dell’Unione Africana. Cresce la preoccupazione per la situazione umanitaria della regione settentrionale dell’Etiopia. L’Onu ha affermato che le carenze sono diventate «molto critiche» perché i 6 milioni di abitanti restano isolati.
«L’Unicef chiede alle parti in conflitto in Etiopia di risparmiare i bambini dalle conseguenze delle ostilità nella regione del Tigrai adesso alla terza settimana. Circa 500.000 persone vivono a Makallè, la metà sono bambini. L’Unicef è profondamente allarmato perché la minaccia di un’ulteriore escalation dei combattimenti dalle due parti potrebbe esporre le loro vite e il loro benessere a rischi immediati».
Lo ha dichiarato Henrietta Fore, direttrice generale Unicef. «Chiediamo a tutte le parti in conflitto un cessate il fuoco e di raggiungere una risoluzione pacifica. Le agenzie umanitarie dovrebbero avere un accesso urgente, continuo e senza ostacoli a tutte le aree colpite. Nel Tigrai, a causa di accesso ristretto e dell’attuale interruzione
delle comunicazioni, circa 2,3 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria e non possono essere raggiunti”
Più di 600.000 persone che dipendono dalle razioni alimentari mensili non le hanno ricevute questo mese e si stima che più di un milione di persone saranno sfollate e il cibo per quasi 100mila rifugiati dall’Eritrea sta per finire. Radio Assenna, emittente dell’opposizione eritrea che trasmette da Londra, riferisce di una situazione particolarmente critica nei campi profughi di Adi Harish e Mai Aini per i combattimenti nella zona che impedirebbero l’ingresso con acqua e viveri dell’Unhcr/Acnur e di Arra, l’agenzia per i rifugiati etiope.
E hanno superato quota 40.000 i rifugiati etiopi fuggiti nel Sudan orientale, dove le organizzazioni umanitarie e le comunità locali lottano per nutrirli, curarli e offrirgli riparo. Quasi la metà dei rifugiati sono bambini sotto i 18 anni.
Paolo Lambruschi
Avvenire
27 novembre 2020