In piazza per la Palestina!
Michele Giorgio
Oggi manifestazioni in 16 città italiane contro il Piano di occupazione e per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ma l’apartheid qui è già una realtà, dicono i palestinesi.
A Roma l’appuntamento è in Piazza del Campidoglio alle 16 di oggi 27 giugno, ma sono tante altre le città si mobiliteranno contro il piano di annessione del governo israeliano di ampie porzioni di Cisgiordania occupata: Milano, Napoli, Firenze, Torino, Palermo, Ivrea, Bari, Cagliari, Bologna, Catania, Genova, Messina, Trieste, Venezia e Vicenza.
Manifestazioni in risposta alla chiamata delle undici comunità palestinesi d’Italia che chiedono alla società civile, le associazioni, i movimenti di aderire alla lotta in corso nella Palestina storica e nella diaspora contro il progetto del governo Netanyahu di annettere allo Stato di Israele la Valle del Giordano e i grandi blocchi di colonie.
«Non siamo stanchi né disperati – dice Yousef Salman, presidente della Comunità palestinese di Roma e del Lazio, alla conferenza stampa indetta ieri a Roma alla Lega delle Autonomie Locali – La nostra forza viene da una causa giusta. Quando abbiamo lanciato l’iniziativa del 27 giugno erano quattro le città aderenti, ora sono 16. Scendiamo in piazza per una pace giusta e durevole, per il riconoscimento dello Stato di Palestina».
Pubblichiamo l’articolo di Michele Giorgio per il Manifesto di oggi:
Verso l’annessione. «Ma l’apartheid qui è già una realtà»
Tra i palestinesi della Valle del Giordano a pochi giorni dal via al processo israeliano di appropriazione del 30% di Cisgiordania. Carenza di acqua e servizi, impossibilità di costruire, stipendi miseri. L’opposto della vita nelle colonie.
L’ombra accogliente delle palme da dattero davanti alla casa di Ahmed Ghawanmeh ci offre un po’ di refrigerio in una giornata davvero calda. Il tè caldo è d’obbligo da queste parti, anche con temperature che sfiorano i 40 gradi, e Ghawanmeh ci tiene a servirlo lui. Da qualche anno è a capo del consiglio amministrativo locale di Jiftlik, una delle più importanti comunità palestinesi nella Valle del Giordano.
«Questa terra a prima vista appare tutta roccia e deserto e invece è fertile e generosa. È una serra naturale. La amo molto, non potrei immaginare un altro posto dove vivere», ci dice prendendo dalle mani del figlio adolescente un vassoio con dell’uva. Non è chiaro se Benyamin Netanyahu annuncerà, il primo luglio, l’annessione immediata anche della Valle del Giordano a Israele, come ha promesso di fare durante le ultime campagne elettorali, o se sceglierà di farlo in un secondo momento limitandosi per ora a un piano più contenuto.
Ghawanmeh riflette qualche secondo prima di rispondere alla nostra domanda su ciò che potrebbe accadere a luglio. «Tutti parlano di al dammu («annessione» in arabo) imminente ma qui siamo annessi (a Israele) già da anni, viviamo già in un sistema di apartheid e nessuno lo ha visto», ci dice. Poi indicandoci alcuni degli insediamenti coloniali vicini a Jiftlik, aggiunge che «se sei un colono (israeliano) hai tutto, l’acqua, l’elettricità, le strade asfaltate. Se sei un palestinese devi lottare ogni giorno per spostarti, lavorare e per conservare quel poco che hai».
Jiftlik, con i suoi 4100 abitanti, è una delle più grandi delle 27 comunità palestinesi nella Valle del Giordano – circa 60mila abitanti – che, in buona parte, rientra nell’Area C, ossia la porzione più ampia (60%) della Cisgiordania che secondo gli Accordi di Oslo per cinque anni, dal 1994 al 1999, sarebbe rimasto sotto il controllo di Israele. Lo status definitivo dell’Area C doveva essere stabilito nei negoziati finali tra Olp e Israele dell’estate del 2000. Fallì tutto, cominciò la seconda Intifada e da allora Israele considera già suo il 60% della Cisgiordania. Non è così per la legge e gli accordi internazionali.
Un tempo era molto più popolata la Valle del Giordano. Dal 1967, l’anno di inizio dell’occupazione, l’esercito israeliano ha «trasferito» oltre 50.000 palestinesi, a volte intere comunità, per sostituirle con campi di addestramento militare. Con questa giustificazione sono stati dispersi ad esempio gli abitanti di Khirbet al Hadidiyah, nella Valle del Giordano settentrionale.
Anche in questi giorni, denunciano le agenzie dell’Onu e le ong per i diritti umani, vengono demolite case e strutture abitative o di ricovero per gli animali, considerate «illegali» dalla legge militare israeliana. Per un palestinese ottenere un permesso edilizio in Area C è praticamente impossibile. Dal 2009 al 2016, meno del 2% di oltre 3.300 domande di autorizzazione, ha avuto successo, calcola il gruppo Peace Now. Le 36 colonie israeliane – circa 10mila abitanti, sorte dopo il 1967 violando il diritto internazionale – al contrario godono di pieni diritti e di tutti i servizi essenziali.
«Potremmo avere più acqua – prosegue Othman – però non possiamo andare oltre i 100 metri con le perforazioni. Così la nostra acqua è più salata rispetto quella che arriva ai coloni, estratta più in profondità». Per questo molti agricoltori sono stati costretti a passare dalla coltivazione degli ortaggi, più sensibili all’acqua meno dolce, alle palme da dattero più resistenti al sale. «Il dattero è meno remunerativo – dice il giovane palestinese – perché dobbiamo competere con la produzione massiccia dei coloni».
Dopo il tè, sul tavolino sotto la palma appaiono caffè e datteri. L’ospitalità è sacra. Arrivano altri giovani, amici o parenti di Othman. Alcuni sono laureati all’università al Najah di Nablus, altri hanno terminato le scuole superiori. Mazen Taamra abita a Fasail, a qualche chilometro di distanza. «Devo essere sincero» ci dice «a me non piace l’agricoltura, a scuola sognavo di fare un lavoro diverso da quello di mio padre e di mio nonno. Ma l’economia (palestinese) è inesistente, l’ha distrutta l’occupazione. E possiamo solo lavorare nei campi».
Mazen, come Othman e tutti i giovani presenti sono braccia a basso costo per le produzioni agricole nelle colonie. Ogni mattina all’alba raggiungono l’ingresso di qualche insediamento e, dopo i rigidi controlli delle guardie di sicurezza, entrano nelle serre e nei campi. «Ci spezziamo la schiena – spiega Othman – e d’estate lavoriamo con temperature insopportabili. Nonostante ciò riceviamo per una giornata di lavoro solo 100-120 shekel (circa 30 euro). Meno di quello che riceve un israeliano ma è l’unico lavoro che abbiamo. Così se hai dei soldi vai da qualche altra parte, dove c’è un futuro».
Shaul Arieli, un comandante militare israeliano in pensione specializzato nella demarcazione dei confini, ha previsto sulle pagine del giornale online Times of Israel, che i palestinesi perderanno durante l’annessione altri 280 kmq di terreni privati. Israele inoltre marcherà un nuovo confine di 200 km tra la Valle del Giordano e il resto della Cisgiordania e un confine di 60 km, di fatto un recinto, attorno a Gerico, il capoluogo della valle. Nuovi confini puntellati di tanti posti di blocco e controllo. Benyamin Netanyahu è stato categorico. «Nessun palestinese nelle aree annesse diventerà cittadino israeliano», ha assicurato. E ha parlato di «enclavi» palestinesi che faranno capo all’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen.
La parola giusta però è «Bantustan» e adesso anche non pochi israeliani cominciano a parlare di «apartheid». Stiamo per salutarci e Othman ci racconta che la madre «spera che una volta avvenuta l’annessione ci daranno la residenza con la carta blu, come i palestinesi di Gerusalemme. Così, dice, ci sposteremo e lavoreremo con più facilità. Anche lei però sa che (gli israeliani) non sono qui per facilitarci la vita, vogliono spingerci ad andare via, poco alla volta».