I giovani si riprendono le piazze!


il Manifesto


Nel rapporto annuale di Amnesty International sui diritti umani nel mondo viene messa in evidenza «la discesa in piazza di nuove generazioni, mai intervenute negli anni precedenti, come fosse un passaggio di testimone» dei movimenti.


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Le rivolte di questi giorni nelle città Usa, le proteste dei cittadini brasiliani contro Bolsonaro e perfino i blocchi stradali e gli scontri con le forze dell’ordine nelle strade di Dakar, sommovimenti molto diversi tra loro, potrebbero però essere letti anche in parte come l’onda lunga di un attivismo giovanile rinvigoritosi l’anno scorso e che, secondo Amnesty International, ha «caratterizzato il 2019».

Nel rapporto dell’associazione che fa il punto sullo stato di salute dei diritti umani nel mondo nell’anno appena passato, viene messa in evidenza «la discesa in piazza di nuove generazioni, mai intervenute negli anni precedenti, come fosse un passaggio di testimone» dei movimenti.

«Giustizia, libertà, dignità, rispetto per l’ambiente, fine della corruzione, delle diseguaglianze, delle dittature e della violenza»: a rivendicarle sono state decine di milioni di persone «come non se ne vedevano dal 2010-2011». Metà della popolazione di Hong Kong, per dirne una. Manifestanti che, in molti casi, hanno saputo resistere alla repressione sempre più dura messa in atto dai governi ed arrivare al successo, piccolo o grande che sia.

«DAL CILE ALL’IRAN, da Hong Kong all’Iraq, dal Sudan al Libano – riferisce il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury – o in Egitto, dove si sono viste nuove generazioni perché chi è sceso in piazza nel 2011 è perlopiù ancora in carcere; o in Russia dove da anni le manifestazioni non erano così numerose».

E i governi come hanno reagito? Con vecchie e nuove tattiche repressive, sui social e nelle piazze reali, continua Noury: «In Cile la polizia sparava negli occhi, a Baghdad le granate ad altezza d’uomo spaccavano letteralmente i crani. In Venezuela oltre 4 milioni di persone sono dovute fuggire, in Nigeria è stato un anno terrificante soprattutto per i bambini soldato e le bambine rapite e date in sposa agli islamisti di Boko Haram; in Israele emerge la criminalizzazione di chi fa ricerca sui diritti umani, in Cina ci sono nuove prove del sistema concentrazionario nel quale vengono internati gli oppositori, in Brasile ha preso fuoco una parte rilevante dell’Amazzonia, il Kashmir ha perso la sua autonomia e alla fine del 2019 ha adottato leggi di discriminazione religiosa, nell’Africa sub sahariana è in atto un conflitto che chiamare a bassa intensità è ingiusto». L’elenco delle violazioni è sterminato, ed è contenuto nel rapporto stampato da Infinito edizioni, con una prefazione di Moni Ovadia, che raccoglie panoramiche su sei macro regioni del mondo e approfondimenti su 19 Stati.

L’EUROPA E L’ITALIA non sono certo un’isola felice, però. «Già nel 2018 era iniziato un percorso di progressiva criminalizzazione delle Ong, soprattutto quelle impegnate con migranti e richiedenti asilo», aggiunge il presidente dell’associazione Emanuele Russo.

Ma non solo «fino ai giorni del Papeete»: anche il governo Conte 2 ha continuato «sulla stessa linea», malgrado «una sorta di maquillage estetico, il cambio di lessico e il profluvio di buone intenzioni». Secondo il Rapporto «a poco più di un anno dall’entrata in vigore del decreto 113/2018, che ha abolito lo status di protezione umanitaria, ad almeno 24.000 persone è stato negato uno status legale, lasciandoli in una condizione di vulnerabilità a sfruttamento e abusi». Sgomberi forzati per i rom, violenze nelle carceri, rapporti di cooperazione internazionale ai limiti dell’illecito: la situazione dei diritti umani in Italia è «particolarmente critica», afferma Russo.

LA PANDEMIA DA COVID-19, poi, «ha fatto esplodere ovunque il divario tra i più poveri e i più ricchi, tra uomini e donne, e la crescita delle disuguaglianze richiede in molti casi il sostegno di governi autoritari che non lasciano libertà di movimento e di manifestazione», fa notare il direttore di Amnesty, Gianni Rufini. È il caso di Paesi come Polonia, Ungheria o Bielorussia. Ma ci sono anche «una ventina di nazioni che al contrario negano l’emergenza, reprimono anche con il carcere chi parla di epidemia, perché non intendono gestirla e mettono in conto che a pagarla saranno solo le fasce più deboli e povere».

PER FORTUNA, fa notare AI, a fronte del pessimo Bolsonaro c’è anche chi, come la premier neozelandese Jacinta Arden, ha vinto la battaglia sul Covid-19 senza intaccare i diritti universali. E in più di un caso, in Italia e nel mondo, le lotte hanno dato i loro frutti migliori. «In Sudan, dopo una rivolta popolare di massa, c’è ora un governo di transizione che tra mille incertezze qualcosa di buono ha fatto», è l’esempio di Nuory. O in Sierra Leone dove la lotta di AI insieme alle Ong africane ha riportato a scuola le ragazze escluse quando sono incinte. Ecco perché il rapporto di Amnesty, come dice Rufini, «non è tanto una galleria degli orrori ma un atto politico, una chiamata a chiunque abbia a cuore i diritti umani, perché ricordi che la casa ormai sta bruciando da più tempo di quello che è tollerabile».

Eleonora Martini

5 giugno 2020

Il manifesto

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