Il governo italiano ha stabilito che i suoi porti non sono «sicuri». Si tratta di una decisione senza precedenti che ha l’obiettivo di impedire fino al 31 luglio prossimo lo sbarco dei migranti salvati dalle Ong. Anzi, dalla Ong.
Al momento, infatti, nel Mediterraneo centrale è attiva solo l’imbarcazione Alan Kurdi, dell’organizzazione non governativa tedesca Sea-Eye. Lunedì scorso ha tratto in salvo 150 persone che rischiavano di annegare.
«È assurdo non considerare sicuri i porti italiani ma ritenere che lo siano quelli libici», afferma Sophie Weidenhiller, portavoce di Sea-Eye.
IL DECRETO non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, forse proprio in attesa di risolvere il caso per cui martedì sera era stata ventilata l’ipotesi di quarantena a bordo di una nave della Croce rossa. Comunque, manca solo l’ultimo passaggio: le firme di quattro ministri sono già in calce al provvedimento.
Si tratta di Paola De Micheli (Infrastrutture e trasporti), Luigi Di Maio (Esteri), Luciana Lamorgese (Interno) e Roberto Speranza (Salute).
In un aprile di tre anni fa quest’ultimo aveva dichiarato: «Salvare le vite nel Mediterraneo è un obbligo morale. Non è accettabile la strumentalizzazione di chi cavalca la paura per prendere qualche voto in più».
Eppure è difficile comprendere la logica del provvedimento al di fuori della strumentalizzazione politica dei salvataggi in mare. Il decreto non può bloccare gli arrivi «autonomi» ricominciati con il bel tempo (151 a Lampedusa nelle ultime 48 ore) e, a parte la Alan Kurdi, tutte le navi umanitarie sono ferme in porto, con i team medici impegnati nell’emergenza Covid-19.
RISULTANO PARADOSSALI i «visto», «considerato» e «tenuto conto» riportati nel testo per giustificare un nuovo «decreto ad navem», dopo quelli firmati da Matteo Salvini. Le argomentazioni richiamano la limitazione degli spostamenti interregionali e dell’ingresso delle persone in Italia, come se la condizione dei naufraghi salvati in mezzo al mare sia paragonabile a quella di chi vuole fare una gita o una vacanza.
Sono menzionate le dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità su emergenza sanitaria globale (30 gennaio) e pandemia (11 marzo), da cui però sono trascorsi rispettivamente 69 e 29 giorni.
In maniera ancora più grave il provvedimento afferma che le persone salvate potrebbero mettere a rischio la tenuta dei sistemi sanitari regionali, come se lo Stato fosse nella condizione di dover scegliere chi far vivere e chi lasciar morire, proprio mentre ci si avvicina alla «fase 2» e il governo prepara la riapertura della maggior parte delle attività produttive.
Beffardo è invece l’utilizzo dell’obbligo di assicurare «l’assenza di minaccia per la propria vita» per motivare un provvedimento che impedisce lo sbarco di chi è stato salvato dalla possibilità di annegare e dall’inferno libico.
«IL DECRETO DI FATTO strumentalizza l’emergenza sanitaria, riprendendo l’impianto già utilizzato nel recente passato per ostacolare le attività di soccorso in mare, in un momento difficile in cui più che mai sarebbe necessaria un’assunzione di responsabilità a livello europeo per poter ottemperare all’obbligo di soccorso», scrivono in una nota congiunta le organizzazioni impegnate nei soccorsi in mare Medici senza frontiere, Mediterranea, Open Arms e Sea Watch. «Con un atto amministrativo, di natura secondaria, viene sospeso il diritto internazionale, di grado superiore, sfuggendo così ai propri doveri inderogabili di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita», sostiene in un comunicato il Tavolo nazionale asilo.
CRITICHE E DISSENSI stanno emergendo anche all’interno della stessa maggioranza. Un appello firmato in poche ore da venti deputati e senatori, insieme a europarlamentari e amministratori locali, chiede «al governo di revocare questo decreto e predisporre invece protocolli sanitari adeguati».
Modalità per tutelare contemporaneamente il diritto alla vita dei rifugiati e quello alla salute pubblica ce ne sarebbero tante. Dall’utilizzo per la quarantena di strutture al momento vuote, come gli hotspot di Messina e Taranto, all’invio di una «nave dell’accoglienza» a Lampedusa.
Lo ha richiesto il sindaco Salvatore Martello sottolineando l’esigenza di una struttura in cui svolgere le pratiche di profilassi necessarie per i nuovi arrivati, compresi quelli sbarcati in autonomia, al fine di garantire sicurezza agli abitanti dell’isola, senza fare passi indietro sui diritti umani.