Il debito dell’Europa: risarcire l’Africa
La redazione
Il contributo di Raffaella Chiodo sul Social Forum Mondiale di Dakar in Senegal dal rapporto “Europa 2.0: prospettive ed evoluzioni del sogno europeo” a cura di Nicola Vallinoto e Simone Vannuccini.
L’isola di Gorée1 è parte severa e incancellabile della nostra storia. Per noi europei, dalla parte del torto. Non c’è scampo. C’è solo debito. Il nostro. Eppure, a cinquecento anni da quando a Gorée venivano concentrati donne e uomini destinati alla deportazione verso l’Occidente – prima la selezione, poi il viaggio di sola andata verso la schiavitù –, non c’è alcun riconoscimento e continua lo sfruttamento. Lo sfruttamento di allora e dei secoli a venire, attraverso il quale abbiamo costruito la ricchezza e il progresso per questa parte di mondo. Per l’altra parte, di fatto, non resta che la condanna a processi di impoverimento. Prima la colonizzazione con le monocolture, poi l’espropriazione delle risorse naturali, dal grano al carbone passando per i diamanti e l’oro ed infine gli aggiustamenti strutturali imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Visti gli esiti nefasti che queste organizzazioni hanno prodotto, i loro prestiti sembra non abbiano mai avuto l’intenzione di essere tali, anche se – sotto il segno della crisi petrolifera del ’73 e delle buone intenzioni di quello che avrebbero dovuto rappresentare gli anni Ottanta, il potenziale “decennio dello sviluppo” –, i loro programmi avrebbero dovuto rendere possibile la ricostruzione delle economie devastate lasciate dagli ex colonizzatori.
A crederci davvero e ad investire risorse realmente consistenti è stata una generazione di importanti leader europei. Personalità della sinistra europea come Olof Palme, Willy Brandt, Altiero Spinelli o Enrico Berlinguer. Una tipologia di politici con una visione responsabile dell’Europa e degli organismi internazionali fondamentali, come le Nazioni Unite, di cui oggi si sente una profonda mancanza. Ma il re è nudo e da tempo. Oggi nessuno lo può più negare che a vincere su quelle visioni solidali ha prevalso ben altro approccio. L’approccio di chi ha inventato il meccanismo perverso del debito estero dei paesi impoveriti, che alla fine dei conti non è stato altro se non un modo per rispondere, più che alle necessità delle economie decolonizzate, alle esigenze delle economie colpite dalle crisi petrolifere degli anni Settanta. Il debito estero è stato ed è ancora in gran parte una fantastica fortuna, un’assicurazione sine die di entrate nelle casse dei paesi ricchi. Infatti estinguerlo nei tempi e nei modi pretesi dalle misure e dalle condizioni imposte era ed è semplicemente impossibile; ripagarlo, invece si che è possibile, e pure diverse volte, con interessi da capogiro.
Dunque, a fronte di questa situazione ormai riconosciuta da tutti, ivi comprese autorevoli personalità degli ambienti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ci saremmo aspettati una doverosa ammissione del fallimento di quei piani di aggiustamento strutturale, a meno di considerarli al contrario un successo perché dettati da altri fini. Non è né una visione di fantasia né retorica, viste le condizioni disperate in cui tali processi hanno gettato innumerevoli economie, che altrimenti avrebbero potuto cercare proprie strade. Diverse, magari migliori.
Ma ormai non è dato saperlo. Spesso figure significative per l’Africa, come Joseph Ki Zerbo2 ci hanno detto proprio questo, e cioè che non li abbiamo lasciati al loro destino: “il diritto eventualmente di sbagliare. Ma di esserne direttamente responsabili cercando la nostra strada con le nostre mani”. Questa non è lirica un po’ ingenua ma amarissima constatazione, ormai maturata e consolidata in anni di valutazioni delle politiche degli aiuti prodotte, a partire da quel decennio dello sviluppo in poi, da parte di esponenti della società civile, di economisti e osservatori dei processi di sviluppo, così come di alcuni leader di governo a livello internazionale. Dopo cinquecento anni di sfruttamento, eccola qui l’Africa derubata e impoverita che vede le sue donne e i suoi uomini scegliere, questa volta, la via dell’emigrazione alla ricerca di un lavoro, una speranza di vita per chi parte e per chi resta. Questa stessa Africa trova oggi minimi e rigidi spazi per inseguire la “chimera” quasi impossibile dei permessi di soggiorno. Come avvenne per l’Europa uscita dalle macerie della seconda guerra mondiale, ci sarebbe stato bisogno di un grande piano Marshall per risarcire l’Africa e farla uscire dal baratro. Per farlo, oggi, non si può prescindere da un processo che prenda spunto dall’esperienza della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica per ristabilire relazioni giuste tra l’Europa e l’Africa.
Ci vorrebbe un processo di arbitrato trasparente, dove indebitati e creditori siedano ad un tavolo basato – per l’appunto – sul ristabilimento della verità e dunque di giustizia. Una sede in cui l’agenda sia quella di ricostruire passo passo i conti, le misure, le risorse economiche e non solo che hanno caratterizzato le relazioni distorte e che hanno portato alla situazione odierna. Questo percorso potrebbe aiutare a ridisegnare le relazioni fra l’Africa e l’Europa; per aprire una nuova era e consentire un nuovo inizio a queste relazioni è indispensabile che siedano allo stesso tavolo rappresentanti delle società civili, della diaspora africana, delle istituzioni sovranazionali dell’Africa (l’Unione africana) e dell’Europa (l’Unione europea), oltre che delle Nazioni Unite. Decenni di impegni e di promesse, con ultimi in termini di tempo gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, puntualmente disattese (tranne qualche “nobile eccezione” come la Norvegia e altri paesi del Nord Europa). Le Nazioni Unite avrebbero dovuto essere l’ambito in cui stabilire gli indirizzi e le azioni portate avanti dalle istituzioni finanziarie internazionali, e non viceversa.
Tornando alle promesse, la più bruciante – per quanto mi riguarda – è quella che si è spenta a Monterrey, nella conferenza delle Nazioni Unite sui finanziamenti per lo sviluppo. La conferenza, tenutasi nel febbraio del 2002 in Messico, avrebbe dovuto individuare le misure e gli strumenti per recuperare le risorse necessarie a finanziare i piani di azione predisposti nell’ambito delle grandi conferenze della Nazioni Unite celebrate nell’arco del decennio Novanta a Rio de Janeiro, il Cairo, Pechino e Copenhagen. Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio lanciati dall’Onu nel 2000, e già frutto di un compromesso fortemente al ribasso, hanno dovuto fare i conti con lo scenario internazionale emerso a partire dall’11 settembre 2001; ancora una volta, dopo una breve parentesi di speranza in un nuovo ordine mondiale sorta al momento della caduta del muro di Berlino e con la fine della logica dei blocchi contrapposti, gli impegni presi dalla comunità internazionale si sono presto arenati e ha vinto la logica della guerra. Lo ricordo sempre, per la cronaca e per la memoria, come un momento buio, per certi versi di svolta. Da mesi andavano in onda i bombardamenti su Kabul. In un solo giorno venivano bruciate risorse che avrebbero potuto essere destinate alla lotta alla povertà e ai famigerati Obiettivi del Millennio. Rapidamente si sono andati riducendo i margini di quegli obiettivi, che per gli africani già suonavano come una dubbia promessa o come l’ennesimo inganno. Sia esponenti della società civile come, ad esempio, gli attivisti della Campagna “Sdebitarsi”3 per la cancellazione del debito estero dei Paesi impoveriti, ma anche personalità come la stessa Evelin Herfkens, portavoce della Campagna del Millennio delle Nazioni Unite, hanno avuto modo di denunciare l’irresponsabilità di tanti governi che non hanno rispettato i già minimi impegni, giocando anche sulla questione del debito estero. Il caso italiano brilla – negativamente – anche in questo caso, per aver utilizzato le risorse dirette alla cancellazione del debito previste dalla legge 209/2000, non solo non mettendo in bilancio alcuna risorsa fresca, ma effettuando contestualmente anche la cancellazione di quel che restava della cooperazione internazionale allo sviluppo. Di sviluppo si muore…
E mentre nel Nord del mondo ricco e sviluppato prendeva piede prima la scelta della guerra, in Afghanistan e in Iraq, e oggi la crisi economica e finanziaria, in Africa è oramai maturato il rifiuto di quel che resta della cooperazione, cioè di quei modelli di sviluppo che i paesi ricchi hanno proposto (e spesso imposto) e che oggettivamente hanno prodotto molti guasti. È un rifiuto della logica degli aiuti. Anche perché in assenza di una reale politica composita costruita su nuove basi nelle relazioni tra Africa ed Europa, che accompagni i programmi di cooperazione con strategie concordate tra i due continenti di sostegno al commercio e alle economie, si sarebbe perpetrato – come denunciano molte campagne della società civile – l’inganno dato dalla donazione di risorse per gli aiuti, che sotto tante forme – prima fra tutte quella del debito estero –, tornano nelle casse dei paesi più ricchi. I processi di dipendenza non solo sono dannosi in quanto tali, ma anche perché sono per lo più estranei alle specificità dei contesti.
La contestazione da parte della società civile è basata sull’analisi attenta dei risultati raggiunti e sulle strategie e i programmi ancora troppo vincolati a indirizzi stabiliti fuori dall’Africa, appunto fuori dai contesti dove i progetti vengono poi dipanati. Il tutto con il risvolto accennato prima, e cioè il fatto che troppe risorse ancora oggi tornano nelle casse del donatore, grazie al meccanismo dei cosiddetti aiuti legati.
Questa è una riflessione che non può risparmiare forti critiche anche verso il mondo più tradizionale delle Ong. Infatti una parte di quest’ultime continuano ad avere un approccio troppo spesso supino verso le linee indicate dai donatori, e dunque assoggettato alla logica di questi aiuti che spesso risultano più funzionali alle necessità dell’occidente, che in fin dei conti è lasciare che le cose, le cause della povertà, restino come sono. Per questo motivo sembra che anche un certo mondo non governativo riesca ancora a trovare coerente l’impegno nella lotta alla povertà, ma lontano da qui, con le politiche dei respingimenti, qui e ora. Il pro cesso degli Stati generali della solidarietà e della cooperazione internazionale4 che si era avviato in Italia, pur con tutti i suoi limiti, aveva guardato avanti e aveva questa pretesa, rilanciando il confronto con il suo Manifesto dal titolo volutamente provocatorio: “Una badante è una cooperante”. È stato un tentativo di sviluppare una revisione generale, dal basso e di sfida alle istituzioni, sull’approccio della cooperazione internazionale, a cominciare dai termini che fin qui sono stati usati, ormai ritenuti superati o addirittura inaccettabili dal pensiero critico della società civile in Africa come in Europa. Donatori e beneficiari, aiuti e partnership.
Tutti termini da riscrivere o da rovesciare se si tiene insieme e coerentemente l’impegno per combattere anche le cause e non solo gli effetti dei processi di impoverimento. Perciò, risulta indispensabile una riscrittura delle basi delle relazioni tra Africa ed Europa per riuscire a costruire un auspicabile e vero partenariato che faccia incontrare soggetti fra loro credibili perché legittimati dalle proprie società. Sia che si tratti di istituzioni, sia di espressioni della società civile. A me pare che una risposta che ha identificato un percorso più sano ed equilibrato sia stata quella che ha visto stabilire delle relazioni dirette fra comunità, europee e africane. Una cooperazione dal basso che ha tenuto conto dei limiti delle grandi cooperazioni e che non è più disponibile ad essere anche indirettamente responsabile di una mancanza di coerenza fra le politiche di lotta alla povertà. Politiche che continuano a non mettere mano alle cause profonde ma soltanto, e comunque troppo poco, agli effetti della povertà. Nell’ambito di queste relazioni, si sono costruite – ripeto, senza la pretesa di essere l’unica risposta giusta e possibile – collaborazioni di vero scambio, nel reale rispetto di identità ed esigenze locali. Troppo poco? Non lo so. Certo è che anche dopo il Trattato di Lisbona resta ancora vivo il problema della mancanza di un chiarimento. Di un punto e a capo. Di un prima e un dopo. Appunto di possibile verità e riconciliazione. Gli Epa (Accordi di partenariato economico tra Europa e paesi Acp) sono ancora lì a dimostrare che la filosofia che guida le relazioni a livello istituzionale e intergovernativo è ancora troppo vecchia, insufficiente, inadeguata. Prima di tutto perché mentre qui si sono prevalentemente ristrette le strategie politiche ed economiche verso la cooperazione internazionale ed i cosiddetti aiuti, con l’Italia al primo posto per miopia e irresponsabilità, nei contesti destinatari degli interventi, dopo decenni di aggiustamenti strutturali e mille altre forme di impoverimento, sono in molti casi mutati gli scenari e gli interlocutori. Sia nei posti di comando e dunque nelle istituzioni, sia nelle organizzazioni della società civile. Ciò si registra soprattutto nella capacità di quest’ultima di strutturarsi e di far pesare le proprie capacità di analisi e di critica basate sulla competenza. Ovviamente non son tutto rose e fiori, ma esiste oggi una generazione e più di donne e uomini africani che offrono solide visioni e competenze alternative. Visioni e competenze indispensabili al bisogno di cambiamento e di inversione di rotta che, anche in Europa, si esprime, soprattutto da parte della società civile.
Una buona parte delle leadership dei paesi dell’Africa, ma certamente una buona parte, sono oggi più inclini a rispondere del proprio operato in materia di accettazione delle condizioni imposte per l’uso delle risorse previste per gli interventi della cooperazione. La corruzione, che dalle nostre parti è permanentemente all’ordine del giorno, è certamente forte anche in questi contesti. Ma è indubbia la crescita dell’analisi, della critica e sempre più della denuncia di ciò che emerge dagli accordi che via via i governi si trovano a siglare per la gestione e per la destinazione di queste risorse. In questo quadro la strategia dei Budget Support5 ha mostrato tutta la sua fragilità ed è stata oggetto di critica da parte delle società civili africane poiché di fatto crea condizioni di controllo totale da parte dei Governi e l’esclusione o la cancellazione del ruolo attivo e diretto degli organismi non governativi locali, cioè del ruolo fondamentale della società civile: quello di svolgere una funzione di vigilanza
e di monitoraggio sul “manovratore”. E non è nemmeno solo una questione di risorse, ma di efficacia, di pertinenza e pure di democrazia.
Infatti se ad individuare e indicare i bisogni, l’opportunità e i modelli di progetto e intervento più vicini e sensati per le realtà locali sono le ong che in loco risultano presenti ed operano con competenza, il fatto di affidare le risorse ai Governi sotto forma di Budget Support, spesso rappresenta concretamente il rischio di togliere loro autonomia, riducendo gli spazi di trasparenza e la possibilità stessa di potere critico. Ad affidare o meglio a scegliere a chi affidare i progetti sono così i governi locali che a volte, grazie al meccanismo del Budget Support, possono “spegnere” la società civile privandola degli strumenti per esercitare la loro capacità critica. Per i cosiddetti donatori il “vantaggio” di questa strada sta nel non dover rispondere direttamente dell’uso delle risorse.
Insomma fare “bella figura” quando si tratta di dichiarare i propri impegni, soprattutto solo promesse, di aiuto, salvo poi tirarsi fuori da ogni responsabilità su come queste risicatissime risorse sono state spese. Dunque la parola chiave per ogni prospettiva che voglia essere seria e che abbia realmente al centro l’obiettivo di imprimere virtuosi meccanismi di progressiva uscita dalla povertà passa per la partecipazione. Partecipare per poter osservare, criticare e delineare proposte. Perciò è importante assicurare sempre la definizione delle forme della partecipazione della società civile nel quadro degli accordi bilaterali e multilaterali di cooperazione siglati tra i governi e l’Unione europea, compresi gli ambiti dei Budget Support. Ciò vale ovviamente sia per i governi del Sud che per quelli del Nord. È innegabile infatti che la stessa necessità di monitoraggio attento sia possibile solo se esistono spazi di partecipazione e, dunque, di trasparenza. Questo permetterebbe di stabilire anche una reciproca possibilità di monitoraggio dell’intero percorso e di misurare la pertinenza e l’efficacia degli interventi. Si tratta in fin dei conti di una forma di garanzia reciproca, di una trasparenza che limiterebbe anche i molti danni prodotti dalle nostre parti.
Ma qui arriva la nota dolente dalla quale non si può più prescindere. Di quali risorse stiamo parlando? Di quali aiuti? L’oggetto del contendere, i cosiddetti aiuti, sono purtroppo in stato davvero impresentabile e se vogliamo essere onesti, dovremmo avere il coraggio di dire che stiamo parlando di qualcosa che è ormai prossimo allo zero. Se le risorse destinate agli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi ricchi sono oggi inferiori alle entrate per il pagamento del debito estero da parte dei paesi impoveriti è evidente che il Sud sta finanziando il Nord e non viceversa. Se la crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo produce un impatto consistente sulla riduzione (quando non la cancellazione) delle risorse destinate alla cooperazione come nel caso italiano, di quali aiuti stiamo parlando? Non diventa paradossale o provocatorio parlare di efficacia e qualità degli aiuti? Il caso italiano nello scenario europeo, per non parlare dell’ormai anacronistico ambito del G8, è l’emblema della ipocrisia su cui ancora oggi poggiano le cosiddette politiche di sviluppo. Gli ultimi dati vantati (con quale coraggio?) dal Governo italiano, della percentuale del Prodotto interno lordo destinata agli aiuti allo sviluppo, è pari allo 0,16 per cento. Con il solito gioco delle tre carte al quale ci hanno abituati i governi, si calcolano in questa cifra anche le quote di cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, pari allo 0,09 per cento del Pil. Si arriva così allo 0,07 per cento di reale spesa per gli aiuti. A rendere ancora più deprimente questo dato c’è da sapere che in questo risicato 0,07 per cento sono compresi i finanziamenti previsti per gli accordi bilaterali di cooperazione fra governi, tra cui quello con la Libia per attuare i respingimenti dei migranti6.
Per le ragioni dette in precedenza diventa difficile pensare ad un futuro senza una seria inversione di rotta da parte delle istituzioni. Un’inversione che deve partire dai cittadini i quali, fino a prova contraria, sono coloro che scelgono chi li governa e che, in fin dei conti, si devono assumere la responsabilità della selezione di chi siede nelle sedi dove vengono definite e praticate politiche che non hanno nella loro agenda gli “aiuti”, la cooperazione e un rapporto diverso con l’Africa. I cittadini europei hanno nelle proprie mani la possibilità di incidere sugli indirizzi politici, selezionando i rappresentanti al Parlamento europeo, monitorando e analizzando le strategie elaborate dalla Commissione europea in materia di politiche di cooperazione allo sviluppo. Un’inversione di rotta dunque non impossibile, ma occorre che emerga nella società, prima ancora che nelle leadership politiche, un cambiamento, una nuova egemonia culturale responsabilmente solidale che segni le politiche e, di conseguenza, gli indirizzi economici e commerciali dell’Unione europea, dei singoli governi e, infine, delle relazioni con il resto del mondo ed in particolare con l’Africa.
Un’inversione come quella rivendicata con una voce tanto autorevole quanto inascoltata, dal leader africano Nelson Mandela in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo, a Durban nel 1999, e successivamente ribadita in molte altre sedi. Mandela lo ha fatto ponendo al centro un punto da cui non si può prescindere, ricordando la storia, le ragioni e le cause antiche e moderne delle condizioni attuali del continente africano. Lo ha fatto elencando le risorse sottratte all’Africa dal Nord del mondo. Come si ricordava all’inizio di questo testo, prima ancora delle risorse economiche, quelle naturali, e prima di tutto la più importante, quella rappresentata dalla vita di tante donne e di tanti uomini deportati come schiavi. È anche grazie a quelle braccia che si sono costruiti il nostro “progresso”, il nostro “sviluppo” e la nostra “ricchezza”. Oggi sediamo comodamente, qui in Europa e in tutto l’Occidente, su questa verità storica negata, riproducendo in forma forse più disonesta lo sfruttamento dei migranti che partono per scelta indotta dalle povertà direttamente legate alle politiche devastanti del passato e del presente. Ieri deportati con la forza, oggi nuovamente sfruttati o respinti con la forza. Le politiche di respingimento attuate dall’Italia e dagli altri Stati europei, così come le altre forme di restrizione degli spazi per l’immigrazione dai paesi più poveri, sono parte di una visione politicamente e umanamente miope ed egoista.
E allora non mi resta che pensare alla responsabilità che sta sulle spalle della società civile europea, che dovrebbe esigere quell’inversione di rotta di cui abbiamo parlato, sapendo che questa necessariamente dovrà passare attraverso un processo di consapevolezza sulle responsabilità del passato lontano e recente dell’Europa e dell’Occidente verso i popoli africani. Per farlo ci vorrebbe una saggezza politica che oggi non appare se non in quella parte della società civile che continua a farsi carico delle responsabilità e costruisce, come scrivevo prima, quei legami e quelle iniziative di cooperazione più oneste e sincere tra le comunità. Dopo tanti anni passati a cercare di contribuire al cambiamento della nostra Europa, alla sua connotazione più responsabilmente solidale mi viene spontaneo sollecitare l’urgenza dell’invito all’ascolto di Nelson Mandela prima che sia troppo tardi. Ricostruire una politica di relazioni con l’Africa, quella oltre il Mediterraneo e quella che è qui nelle nostre case da tempo. Riconoscere quell’Africa che raccoglie le arance, che cura i nostri genitori e figli, che con le rimesse assicura una vita alle proprie famiglie e, contemporaneamente, paga ancora il debito ingiusto e odioso e, qui da noi, le tasse per finanziare le nostre pensioni, i nostri servizi pubblici e le nostre infrastrutture. Riconoscere anche quell’Africa che ci porta le tante ricchezze culturali, la voglia di vivere, la capacità di relazioni umane forti, di un rapporto meno distorto con l’ambiente, la natura, le sue letterature e le sue musiche vivissime. Di qui non si scappa. La risposta o viene data su tutto il pacchetto o semplicemente non ci sarà. E ciò sarebbe nefasto e imperdonabile per le prossime generazioni. È il tempo del risarcimento del nostro debito sociale ed ecologico. Un debito di dignità umana.
Fonte: www.peacelink.it
6 febbraio 2011