Codice rosso è legge. Ma c’è poco da festeggiare!
Il Fatto Quotidiano
Il Codice Rosso affronta il problema della violenza maschile contro le donne con interventi securitari e repressivi. Ma per risolvere il problema sarebbero necessarie altre misure e risorse finanziare.
IL 17 luglio scorso in Senato è stato approvato il disegno di legge sul Codice Rosso con 197 voti favorevoli e 47 astenuti, tutti dei gruppi parlamentari di Pd e LeU. I quotidiani titolano trionfalmente “giustizia più rapida per le donne” riportando le parole dei politici che hanno sostenuto il testo di legge. Ma a parte la propaganda, sarà davvero così?
Per la rete D.i.Rec’è poco da festeggiare. In Senato il testo è stato blindato ed è arrivato in aula come era stato ricevuto dalla Camera. Non sono state accolte le critiche fatte in audizione dalle esperte, nemmeno le osservazioni della Commissione del Csm sul termine troppo rigido dei tre giorni, un automatismo che “rischia di creare un inutile disagio psicologico alla vittima e un appesantimento difficilmente gestibile per gli uffici giudiziari e le forze di polizia”.
Il Codice Rosso affronta il problema della violenza maschile contro le donne con interventi securitari e repressivi. Così avvenne con la cosiddetta legge sul femminicidio (la 119) e così avviene oggi. Si cavalca l’emotività popolare, facendo propaganda con misure che sono tutte un decantar di muscoli e un titillare rabbia verso gli stupratori e i pedofili (vedi la recente ipotesi fatta dalla Lega sulla castrazione chimica non inserita nel Codice Rosso), ma da un punto di vista strutturale non si contrasta efficacemente la violenza contro le donne, anzi a volte si fa di peggio: il disegno di legge 735 (cosiddetto ddl Pillon) che il 23 luglio tornerà in discussione in Commissione giustizia, espone le donne alla reiterazione delle violenze perché le lascia ostaggio degli autori di violenza. Una contraddizione che rivela come siano forti le reazioni conservatrici per controllare le donne, fino a non riconoscere o a rimuovere il problema della violenza.
La denuncia e la condanna penale, lo spieghiamo da anni, non possono essere le uniche risposte. I proclami “castriamoli chimicamente”, “mandiamoli tutti in galera”, “galera a vita” ecc. appagano la pancia del Paese fino a quando le cronache dei femminicidi annunciati ricominciano ad essere raccontate sui quotidiani. Se setacciamo il Codice Rosso, qualcosa di buono lo troviamo: l’introduzione del reato di revenge porn e la violazione degli ordini di protezione, che diventa un reato procedibile d’ufficio.
La norma riguarderà solo gli ordini di allontanamento del tribunale penale, ma non quelli del tribunale civile e questa è un’occasiona mancata. Se è positivo che sia stato introdotto l’obbligo della comunicazione, tra la cancelleria penale e quella civile, dei procedimenti penali a carico di violenti, resta il problema della mancanza di formazione dei giudici e delle Ctu. Accade troppo spesso che nelle cause di separazione e affido dei minori non si tenga in considerazione la violenza.
C’è una ragnatela di distorsioni che indeboliscono o intralciano il diritto delle donne di vivere libere dalla violenza.
Mauro Grimoldi, psicologo e consulente tecnico intervenuto ieri al convegno D.i.Re, ha spiegato che “la violenza di genere non viene presa in considerazione dalle Consulenze tecniche d’uffico (Ctu) nominate dal giudice nei casi di separazioni conflittuali e affido dei minori”. La violenza viene confusa con il confitto e si arriva a consigliare alle donne di ritirare le querele per dare prova di volersi conciliare e abbassare la conflittualità. In situazioni peggiori le donne che hanno subito maltrattamenti sono dichiarate “madri non tutelanti”; ma un uomo che commette violenza anche davanti ai figli “è comunque un buon padre”. Il processo civile è diventato un momento critico e accade sempre più spesso che si azzerino le responsabilità degli uomini che commettono violenza in famiglia e si colpevolizzino le donne. Un esempio è la recente sentenza di Padova, che ha collocato i figli presso un padre che aveva commesso violenze gravissime in loro presenza.
La parte più critica del Codice Rosso riguarda l’obbligo per le Procure di ascoltare le donne entro i tre giorni. In primo luogo non è stata eliminata la possibilità di delega alla polizia giudiziaria e, a causa della carenza di organico nelle procure, le donne saranno sentite da carabinieri e polizia. Non si fa alcuna differenza sulla gravità dei reati per l’ascolto delle donne e soprattutto non ci si cura che le donne siano state già messe in protezione al momento della convocazione. Si contatteranno le donne a casa? E che cosa diranno al maltrattante: “Scusa, vado a ripetere la denuncia”?
Ci sono ancora altre parti critiche. Nella legge non sono previsti interventi per accorciare i tempi del processo penale, che in media dura sette-otto anni, talvolta di più, e una sentenza definitiva dopo dieci anni (schivando la prescrizione) non dà giustizia a nessuno. E’ fondamentale mettere in campo interventi integrati e a più livelli, allontanando le donne dai violenti insieme ai figli, sostenendole nei percorsi di autonomia economica. O continuerà ad esserci il rischio che ritirino le querele e le archiviazioni, sintomo del fallimento del sistema, resteranno in percentuale elevate.
“La denuncia è solo il primo passo di un percorso che per le donne spesso si trasforma nell’ennesimo calvario, come hanno dimostrato i tanti interventi al Convegno che abbiamo organizzato ieri: nelle aule dei Tribunali la loro parola non è creduta, la loro vita privata giudicata, la violenza subita non viene presa in considerazione quando si tratta dell’affido dei figli”, ha detto Lella Palladino, presidente D.i.Re. “Tutti questi problemi restano insoluti. Non si investe un euro per la formazione di forze dell’ordine e personale giudiziario, terribilmente necessaria perché la violenza contro le donne, di cui tutti parlano, è un fenomeno che in realtà pochi conoscono davvero”.
Ma la parolina chiave del Codice Rosso è “invarianza finanziaria”. Si dovrebbe fare tutto con le risorse che ci sono. Ah ecco. Mi pareva.
Nadia Somma
Attivista presso il Centro antiviolenza Demetra
Il Fatto Quotidiano
18 luglio 2019