San Ferdinando, sgomberata la baraccopoli


la Repubblica


Nella struttura erano accolte 900 persone. Molti si sono solo spostati nei dintorni. Il paradosso del ghetto, una sacca di degrado ed emarginazione creata da anni e anni di diritti negati a chi lavora a schiena curva nei campi.


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Le operazioni di sgombero della baraccopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, 6 marzo 2019.
ANSA/ MARCO COSTANTINO

SAN FERDINANDO (REGGIO CALABRIA) – Camionette, ambulanze e all’orizzonte le ruspe, pronte a buttar giù tutto. Centinaia di agenti delle forze dell’ordine che presidiano l’intero perimetro. Dalle prime luci dell’alba, il ghetto di San Ferdinando è militarizzato. Ma nella baraccopoli che il ministero dell’Interno ha ordinato di sgomberare e abbattere, sono rimasti in pochi. Qualcuno lentamente sta andando via, portando con sè le poche cose che possiede. Sulla strada che dalla tendopoli porta a Rosarno si avvia anche un bambino che per mesi ha vissuto nel ghetto.

Degli oltre 1600 abitanti che fino a qualche giorno fa vivevano nell’area sono rimasti in pochi. La Questura parla di 600 persone, ma secondo le stime dell’Usb non sono più di trecento. La maggioranza ha approfittato della notte per disperdersi nelle campagne della Piana. Aspettano che si calmino le acque – dicono i sindacati – per tornare nella stessa area o magari cercare riparo poco lontano. “In molti non si sono fatti trovare e si sono spostati nei dintorni, altri hanno deciso di partire per altre zone”, dice Peppe Marra dell’Usb. “Chi è rimasto, per lo più non ha intenzione di accettare di entrare nelle tende che la Prefettura ha messo in piedi dall’altra parte della strada o di andare nei Cas. Anzi, molti che erano stati trasferiti nelle scorse settimane sono già tornati. Si organizzeranno autonomamente, con il risultato di creare mille nuovi micro insediamenti”.

La strategia immaginata dalla Prefettura di Reggio Calabria, che per settimane ha cercato di trasferire 600 degli oltre 1500 braccianti in Cas e Sprar, si è rivelata fallimentare. Meno della metà degli aventi diritto ha accettato e molti sono già tornati in tendopoli. Le strutture sono lontane dai campi in cui lavorano, per il rinnovo dei documenti dipendono dal commissariato di Gioia Tauro e in molti casi aspettano il pagamento di giornate, se non settimane o mesi già passati nei campi. In molti hanno occupato, almeno per qualche notte, la baracca di chi spontaneamente è andato via.

“Fino a ieri erano molti di più – spiega Youssef – ma in molti hanno preferito partire”. I piccoli spacci di cibo sono stati quasi tutti smantellati, la merce ordinatamente imbustata e conservata, insieme ai pali e alle lamiere che serviranno per rimetterli su altrove. Anche la moschea, dopo la preghiera del mattino, è stata smontata. I pesanti tappeti sono stati arrotolati con attenzione e portati nella nuova tendopoli. Chi ha potuto, ha caricato tutto sui furgoni ammaccati e auto scassate. Destinazione, Foggia o Metaponto per l’inizio della stagione. O le grandi città del Nord Italia. Qualcuno ha impilato tutti i suoi averi sulla bicicletta e si è diretto verso la stazione di Gioia Tauro.

Nella notte, attorno alle 23, erano passati gli Intercity diretti a Roma. Alcuni si fermeranno prima, altri proseguiranno oltre. “Non so, aspetto notizie da mio cugino che sta vicino Napoli” dice Ydris. “Ci hanno dato troppo poco tempo, non siamo riusciti a organizzarci. Insieme ad altri senegalesi abbiamo provato a cercare casa a Rosarno, inutilmente”. Sono troppe le garanzie richieste. “È normale che chiedano documenti però da noi africani pretendono conto in banca, lettera di garanzia di un italiano e un contratto regolare, ma – sbotta – sono proprio loro a farci lavorare a giornata o a cassetta”. Sta tutto qui il paradosso del ghetto di San Ferdinando, una sacca di degrado ed emarginazione creata da anni e anni di diritti negati a chi lavora a schiena curva nei campi.

Ciclicamente viene definita emergenza e trattata come tale. Ma è dal 2010, dopo quella che fu definita la “rivolta di Rosarno”, scoppiata dopo mesi di aggressioni ai braccianti africani, che la tendopoli nasce e risorge sulle ceneri degli innumerevoli incendi che lì sono scoppiati, distruggendola in tutto o in parte. Di notte, nella Piana di Gioia Tauro fa freddo e nel ghetto per scaldarsi ci sono solo falò e bracieri, spesso origine di roghi devastanti. L’ultimo, il 16 febbraio scorso, è costato la vita al 29enne senegalese Moussa Ba. Il ministero dell’Interno ha ordinato lo sgombero e la Prefettura si sta affrettando ad eseguire. Rapidamente sembrano essere stati nuovamente rimandati a data di destinarsi i progetti di integrazione abitativa, per anni rimasti sulle carte dei protocolli, ma di recente divenuti più concreti grazie alla Regione, che accogliendo le proposte dell’Usb, aveva messo a disposizione persino un fondo di garanzia.

Per dare un tetto ai braccianti che verranno buttati fuori dal ghetto ci sono solo nuove tende. Sono state messe in piedi dall’altra parte della strada, dentro e fuori la cosiddetta “nuova tendopoli”, voluta due anni fa come soluzione “temporanea” e nel tempo allargatasi anche oltre il recinto che la delimita. “Uno straordinario passo indietro, che riporta a otto anni fa, dopo la rivolta di Rosarno – dice Patrik Konde della segreteria nazionale Usb -. Anche allora sono state costruite delle tende, che negli anni sono diventate un ghetto. L’unica soluzione è garantire contratti regolari e integrazione abitativa a questi braccianti. Questa non è una questione di migrazione, ma di diritti del lavoro”.

Repubblica

6 marzo 2019

 

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