Noi, in questa prigione chiamata Libia
amelia rossi
Malati gravi. Perseguitati politici. Vittime di guerra. Per salvarsi la vita devono scappare. E la loro unica speranza sono i gommoni. Ecco i loro racconti
Ho studiato per diventare infermiere, aiutare le persone, ora sono povero tra i poveri, non ho soldi neppure per aiutare mio padre, anziano». Khaled mette una mano in tasca, estrae il portafogli, lo apre per mostrare che è vuoto. Non una banconota, non una moneta. «Negli ultimi quattro anni lo stato mi ha pagato 5000 dinari, che al cambio ufficiale sono 4000 euro, ma al cambio al mercato nero a malapena ottocento. Siamo dipendenti statali, invece passiamo mesi ad aspettare stipendi che non arrivano».
Khaled ha ventotto anni, è nato a Surman, nella parte occidentale della Libia, zona che è stata per anni snodo nevralgico del traffico di uomini, controllata dalle mafie locali. Appena terminati gli studi ha deciso di dedicarsi alle vittime del traffico di uomini, recuperando i migranti dopo i naufragi dei gommoni, ha raccolto cadaveri sulle spiagge e riempito decine di sacchi neri con corpi senza identità. Mostra le fotografie degli ultimi anni, il diario tragico dei suoi anni con la Mezza luna libica. «Ho visto corpi di bambini annegati, intere famiglie riportate indietro dalle onde dopo che i gommoni erano affondati. Lo Stato non ci pagava e non ci paga lo stipendio, però ci mette a disposizione i sacchi per i cadaveri, quello sì» dice, indicando la fotografia del corpo di un bambino, che avrà avuto non più di sette, otto anni e poi la fotografia di una donna, sotto un albero con il corpo sepolto per metà «l’hanno sicuramente abbandonata lì a morire, forse si è sentita male, forse l’hanno stuprata. Spesso troviamo corpi di donne abbandonati in mezzo alle piante, nei punti che i trafficanti usano per radunare le persone lungo le coste. Le donne sole pagano il prezzo più alto qui».
Passa in rassegna decine di immagini, Khaled, istantanee di storia recente della Libia. Si ferma sulle immagini del giugno del 2016 a Zuara, cinquanta chilometri dal confine tunisino, allora i corpi sulla spiaggia, alcuni in disfacimento da tempo, erano 117. «Uno dei giorni più tristi della mia vita», dice. Poi si ferma, sospirando sull’unica immagine apparentemente serena, due ragazzi che si abbracciano sorridendo, all’interno di un’auto. Hanno gli occhiali da sole, sembrano felici. Spensierati.
Uno è Khaled «l’altro è il mio amico Husen, pochi mesi fa ha scoperto di essere malato, ha un cancro e qui non può curarsi. Abbiamo chiesto un visto, Husen ha bisogno che i medici valutino la sua condizione, ha bisogno di raggiungere l’Europa per curarsi. Ci hanno negato il visto. Siamo nati col passaporto sbagliato», Khaled esita, come chi sta per ammettere una verità faticosa, come chi sta per infrangere un tabù, poi conclude «senza un visto, senza la possibilità di arrivare in Europa legalmente non ci resta che contattare i trafficanti, è paradossale, perché noi combattiamo ogni giorno contro la corruzione e il malaffare della Libia, è il dramma di cui ho testimoniato le conseguenze per anni: il controllo dei trafficanti sulla vita dei libici. Un’ombra nera che ci mangia. Eppure oggi mi sento messo all’angolo, non ho scelta. Sette anni dopo la rivoluzione, questa è la sola prospettiva per un giovane libico che vuole lasciare il paese: rischiare di morire annegato nel Mediterraneo, mettersi in mano ai trafficanti».
Dall’inizio del 2018 i libici arrivati in Italia via mare sono 260. Molte famiglie, bambini. Lo scorso 10 marzo la nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms ha soccorso un gommone con tre fratelli. Una fuga disperata per portare uno di loro, il più piccolo di quattordici anni, in Europa e dargli la possibilità di curarsi, si chiama Allah, e ha la leucemia. «Avevano duecento litri di benzina sul gommone e si sono messi in mare per avere la possibilità di curarsi – ha detto Oscar Camps, direttore della Ong – veri eroi». Il 10 aprile scorso lo Human Rights Office delle Nazioni Unite ha pubblicato un report sull’attuale situazione in Libia, denunciando che i gruppi armati nel paese detengono ancora migliaia di persone arbitrariamente (nel solo centro di detenzione sulla strada dell’aeroporto di Mitiga ci sono 2600 persone) sottoponendole a torture e costanti violazioni e abusi.
Tra queste milizie anche quelle affiliate al governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Alleato con i governi europei. «Le vittime hanno poco o nessun ricorso a rimedi giudiziari», si legge, «mentre i membri dei gruppi armati godono di impunità».
L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha lanciato un grido di allarme sulle violazioni nei centri di detenzione libici, sottolineando che, anziché sottoporre a controllo e rigide regole i membri delle milizie, i governi libici hanno sempre più fatto affidamento sui loro mezzi e uomini, delegando la funzione di garantire sicurezza, fornendo loro mezzi, salari, attrezzature e uniformi. In una parola: legittimità.
In pratica le milizie armate spesso coinvolte in traffici illeciti tra cui il contrabbando di carburante, i rapimenti, il traffico di uomini e la gestione arbitraria e criminale delle prigioni, anziché essere ostacolate dal potere politico, sono state cooptate, diventando parte di quelle istituzioni che avrebbero dovuto combatterle. Così il loro potere è cresciuto, senza controllo «sono di fatto liberi da una supervisione governativa», si legge ancora nelle 42 pagine del rapporto Onu.
«I migranti sono torturati e i libici, semplicemente scompaiono», dice Massoud Ali, cinquant’anni, guardando il mare «a Bengasi puoi uscire di casa al mattino senza che nessuno sappia più nulla di te. Poi dopo una settimana o un mese trovano il tuo corpo nascosto dietro un cassonetto, e magari nel frattempo la tua famiglia ha venduto tutto quello che aveva per pagare un riscatto. Noi a Bengasi siamo stati gli uomini della rivoluzione, oggi la città è in mano ai banditi, le nostre case sono state bruciate dagli uomini di Haftar. Noi siamo la prova che non esiste alcun tentativo di stabilità in questo paese, il processo democratico è una farsa». Massoud Ali a Bengasi era un insegnante universitario, ha perso un fratello, rapito e ucciso da bande criminali, la casa e il lavoro. È scappato perché «se gli uomini di Haftar decidono di farti sparire, lo fanno», dice: «Io sono un oppositore del generale, perché per me rappresenta il ritorno al passato, tutto ciò contro cui ho combattuto: il ritorno del regime. Ma lui ha la scusa buona per i titoli dei giornali, dice che i suoi oppositori sono terroristi islamici. Guardami, ti sembro un terrorista? Non lo sono. Sono un cittadino libico che lotta affinché nel suo paese non torni una dittatura militare». La famiglia di Massoud Ali è una delle 25 mila famiglie scappate da Bengasi. Oggi Massoud, sua moglie e i suoi figli vivono in quello che era un villaggio turistico sul mare di Misurata, una zona residenziale che un tempo ospitava la villeggiatura delle famiglie benestanti dell’area, ma dal prossimo mese il governo Sarraj non pagherà più l’affitto degli alloggi e tutti si ritroveranno di nuovo in strada, senza un posto dove stare.
«Vivo in una Libia che non riconosco più, questo non è più il mio paese. Mi sveglio guardo il mare e mi chiedo cosa ne sarà della mia vita e di quella dei miei figli, mi sento illegale a casa mia. A noi i visti sono negati, non possiamo muoverci di qui: l’unica soluzione sembra essere un gommone, e provare ad arrivare in Europa». Accanto a Massoud c’è Ali Haadani, a Bengasi aveva un’azienda agricola, e Mohammed Ennace, che aveva un’azienda edile e dieci dipendenti, e Omar Ali un ingegnere elettronico: «eravamo la classe media del paese, oggi non abbiamo che una busta di plastica con un mucchio di abiti, tanto ci resta del nostro passato», dice Omar, «a Bengasi non possiamo tornare, qui ci fanno vivere come miserabili, la sola possibilità che ci resta sono i trafficanti».
Pochi giorni dopo la pubblicazione del report delle Nazioni Unite, nei boschi vicino Surman sono stati ritrovati i corpi dei tre figli di Riyad Al Shershary, un uomo d’affari. I bambini erano stati rapiti dalle milizie criminali locali in pieno giorno, nel dicembre del 2015. Una raffica di spari ad un semaforo, l’autista del veicolo ferito alle braccia e i tre bambini portati via da sei uomini incappucciati, sulla strada principale della città, di fronte agli occhi dei passanti.
La famiglia ha pagato riscatti per anni, nella speranza di riavere i bambini. Speranza vana. Le milizie, comprese quelle affiliate al governo, usano i rapimenti contro gli oppositori politici, come vendette personali, non solo a scopo estorsivo.
È il caso delle forze Al Firqa 17, sotto il ministero dell’Interno di Tripoli, che hanno rapito un uomo, l’hanno torturato con bruciature di sigarette, pugni e percosse e rilasciato dopo tre giorni solo dietro il pagamento di un riscatto, perché aveva denunciato la corruzione dei funzionari del ministero.
Il 16 febbraio sulle spiagge di Zuwara sono stati ritrovati dieci corpi, otto dei quali di cittadini libici. Alcuni dei sopravvissuti a quel naufragio hanno raccontato che sulla barca affondata ci fossero altri ottanta libici. Probabilmente morti. Ayoub Qasim, portavoce della marina libica si è affrettato a smentire.
Difficile sapere quanti fossero, quello che è certo è che una delle vittime si chiamava Abdul Bari, era un giovane di Tripoli, voleva arrivare in Europa per un vita migliore, voleva fuggire dalle paure dei rapimenti e delle torture di cui il governo libico è consapevole, voleva un visto. Ma gliel’hanno negato, così un giorno ha contattato un trafficante e ha provato a scappare via mare.
Aveva una vita sola e voleva viverla altrove, queste le sue ultime parole, scritte al computer, prima di morire affogato.
DI FRANCESCA MANNOCCHI
L’Espresso
19 giugno 2018