In Lombardia c’è chi non vuole più le bombe italiane


amelia rossi


Trasformare gli ideali pacifisti in legge: le iniziative istituzionali e sociali di alcuni piccoli Comuni a sostegno della campagna “Italia, Ripensaci”


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Tornado

Le piccole città italiane riservano sempre qualche sorpresa. Piacevole o spiacevole a seconda dei casi e, molto spesso, addirittura al contrario di quel che sembrerebbe osservando una carta geografica o un depliant turistico. Su Google map, per esempio, Ghedi – 18mila abitanti a 18 chilometri di distanza da Brescia – sembra un’oasi di verde nel disastro urbanistico industriale della Lombardia. Collebeato al contrario, che di abitanti ne ha solo quattromila, a tutta prima sembra solo un pezzo della cintura urbana del capoluogo che sale in val Trompia, un’area del bresciano dove gli insediamenti arrivano a ospitare anche 1.200 persone per chilometro quadrato.

A leggere di Ghedi si scopre che c’è una chiesa del diciassettesimo secolo, sorta su un’antica pieve, con un campanile del quattrocento, un palazzo comunale di origine medievale, logge e resti di un monastero francescano. Al contrario a Collebeato non c’è molto altro se non alcuni palazzi nobiliari di antichi notabili come i Martinengo. Bisogna andarci allora, a Ghedi e a Collebeato, per alzare il velo di una realtà che, nel primo caso, ci si guarda bene dal pubblicizzare, e nel secondo è più ricca di quanto ci si possa aspettare.

Nonostante i vanti architettonici, Ghedi in sé non è di grande interesse. È una cittadina vasta e moderna con un centro rimaneggiato più volte e dominato da un parcheggio. Ma lasciato il centro abitato, percorrendo una decina di chilometri verso Castenedolo, si incontra l’aeroporto militare, oggi sede dei Diavoli rossi del 6º stormo dell’aeronautica , e in precedenza della pattuglia acrobatica delle Frecce tricolori. Dentro la lunga cancellata ricoperta di teli verdi e sormontata dal filo spinato che si può percorre in auto per circa tre chilometri e mezzo – tanto è lungo il confine sud dell’aeroporto – la base è però anche altro. Molto altro.

In base a un accordo di “condivisione nucleare” l’Italia ospita da quasi settant’anni un certo numero di bombe atomiche americane. Le B61, così sono chiamate le testate, oggi dovrebbero essere una cinquantina. Il condizionale è d’obbligo perché i dati non sono ufficiali, ma coperti da segreto militare: una trentina sarebbero stoccate nella base statunitense di Aviano in Friuli-Venezia Giulia e altre venti nella base italiana di Ghedi, dove i Diavoli rossi convivono con lo squadrone di soldati americani che le ha in custodia.

Le atomiche del sito bresciano possono essere impiegate dai cacciabombardieri Tornado del 6º stormo almeno fino a che non saranno sostituiti dagli F-35, due dei quali sono negli hangar dell’aeroporto. I campi intorno alla base sono un’enorme zona di rispetto, costellata di cartelli che avvertono del rischio di aerei “a bassa quota” e, all’ingresso del centro abitato, proprio sotto la scritta Ghedi, si legge che si tratta di un comune “videosorvegliato”. Siete avvisati. E se provate a fare una telefonata, sappiate che il cellulare prende con difficoltà.

Ufficialmente però quelle bombe non esistono. “Il motivo di questo segreto”, dice Carlo Tombola dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia, “sta nell’imbarazzo dei nostri governi che non hanno alcuna autonomia in questa materia, anche se alcuni stati membri della Nato si sono rifiutati di ospitare testate nucleari. Si tace per non perdere credibilità e anche per non allarmare i cittadini”.

“La storia delle atomiche girava nel bresciano sin dagli anni ottanta. Tutti però negavano”, dice Adriano Moratto del Movimento nonviolento, l’associazione fondata da Aldo Capitini, il pacifista che ha incarnato la non violenza dando vita alla marcia Perugia-Assisi.

Moratto è, insieme a don Fabio Corazzina, la memoria storica di un movimento dal basso che, con costanza e determinazione, ha sempre cercato di far venire a galla la verità sulle bombe. Contestando una scelta che feriva ancora di più un territorio già martoriato da fumi industriali e da un numero altissimo di discariche, come quelle a Montichiari, che ha 23mila abitanti e 21 discariche.

Il tutto in un’area famosa per la produzione di armi: dalle mine antiuomo della Valsella (Castenedolo), alle armi leggere della Beretta (Brescia) fino alla famosa Rwm, l’azienda che fabbrica le bombe usate nello Yemen in Sardegna, e che come sede italiana ha scelto proprio Ghedi.

Incontro i due attivisti a Brescia nella parrocchia di San Maria in Silva, dove un gruppo di bambini di tante nazionalità sta provando un repertorio di canzoni in lingue diverse. “Il mondo cattolico ha fatto tanto: le Acli, l’Azione cattolica, la Pastorale giovanile si sono impegnate fin dall’inizio, ma dai vertici… niente. Eppure basterebbe prendere alla lettera le parole di Francesco”, dice Corazzina. E la sinistra? “Si certo, qualche ‘cane sciolto’ dei partiti o del sindacato ci veniva alle nostre manifestazioni”, ricorda Moratto, “ma i leader… Poi ci fu il fervore sul referendum contro il nucleare, ma il quesito riguardava il nucleare per uso civile. Le atomiche sono un’altra cosa”.

Il movimento nel tempo raccoglie altre adesioni, dai focolarini agli scout. Fino a “piccole associazioni o centri di ricerca magari di quattro cinque studenti di cui ho scoperto l’esistenza quasi per caso”, dice Moratto. Ma, avverte Corazzina, “bisogna anche essere pragmatici e trasformare gli ideali in leggi, provvedimenti, ratifiche”. E qui arriviamo a Collebeato.

L’alternativa di Collebeato
Collebeato, se non dovete andarci per forza, è facile che lo evitiate. Sulla carta sembra solo un pezzo della triste periferia di Brescia, annunciato – sul lato sud del fiume Mella – da capannoni in disuso, facciate di fabbriche sventrate, centri di demolizione e riconversione di materiali ferrosi.

Ma appena attraversato il fiume, che scende dalla val Trompia e divide il paese da Brescia, si apre un piccolo centro di case antiche, basse e ben conservate, su una pavimentazione rifatta con cura e con un’attenzione meticolosa al verde.

I quattromila abitanti sono riusciti a demolire un ecomostro – un enorme e invasivo cementificio abbandonato – trasformando i suoi 55mila metri quadrati in un parco giochi. Operazione complessa per una città, figurarsi per un piccolo paese.

Inoltre – per ritornare al nucleare e alla trasformazione degli ideali in leggi – il sindaco Antonio Trebeschi ha fatto del paese uno dei protagonisti nella campagna per il disarmo “Italia, ripensaci”. Collebeato è uno dei 45 comuni bresciani, su 200, che hanno ratificato il trattato voluto dall’Onu per la messa la bando delle armi nucleari, un atto ufficiale anche se solo dimostrativo, con il quale si spera di indirizzare le scelte dei leader nazionali.

Trebeschi è convinto che le amministrazioni locali possano giocare un ruolo importante per spingere il governo italiano a ratificare il trattato dell’Onu. “Il nostro è un comune con una forte vocazione ambientale”, dice, “l’iniziativa è sostenuta non solo dall’amministrazione, ma anche dai cittadini, perché è anche una forma di tutela del territorio”.

I costi
Ma quanto costa mantenere le bombe di Ghedi e di Aviano? “Esclusa la compartecipazione alle spese per l’aggiornamento delle bombe atomiche B61 (e per la loro integrazione sui velivoli nazionali), rimangono a carico degli alleati le spese per l’aggiornamento dei sistemi di protezione e stoccaggio degli ordigni presso le basi nazionali”, si legge nel rapporto Mil€x 2018 di Rete disarmo.

In Italia “la spesa complessiva di questo programma (la sola progettazione nel 2014 è costata alla difesa 215mila euro) è di 23 milioni di euro”, scrivono gli analisti. Poi ci sono gli aerei e cioè le spese di manutenzione e aggiornamento dei velivoli nazionali dedicati al “nuclear strike”.

“Nel caso italiano”, dice Francesco Vignarca, tra gli autori del rapporto, “le spese riguardano i quaranta Tornado della base di Ghedi. Solo nel 2018 sono state più di 88 milioni, mentre da qui al 2025, anno in cui gli aerei saranno sostituiti dagli F-35, supereranno il miliardo di euro”. Ma oltre a queste, ci sono anche le spese per l’aggiornamento della cosiddetta capacità aerea non convenzionale, che ammontano a 254,6 milioni (16,5 milioni nel 2018).

E i piloti? Le spese di addestramento dei gruppi di volo dedicati al “nuclear strike” – i Diavoli rossi del 6° stormo di Ghedi – sono difficili da quantificare. Dice Vignarca che “in genere l’addestramento di un pilota militare ha un costo che si aggira intorno al milione di euro”.

Infine le basi: spese per strutture, equipaggiamenti, protezione per il personale statunitense… “Secondo le nostre stime, la spesa direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari statunitensi sul suolo italiano, a Ghedi e ad Aviano, ha un costo minimo di almeno 20 milioni all’anno, ma complessivamente potrebbe arrivare fino a cento milioni”, conclude Vignarca. Chissà con quei soldi cosa ci farebbero a Collebeato.

Emanuele Giordana

Internazionale

14 gennaio 2019

 

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