Dopo Sprar, la sfida della diocesi di Locri
Avvenire
Da Monasterace a Caulonia, da Sant’Ilario a Gioiosa Jonica, la lunga fila di chi non ha più una casa. Ma anche degli operatori italiani senza lavoro
Chiudono o si svuotano gli Sprar della Locride. E non solo quello più famoso di Riace, ma tutti i 12 centri di accoglienza e integrazione dell’area ionica reggina.
È la grave conseguenza del decreto sicurezza che permette l’accesso agli Sprar solo a chi ha avuto riconosciuto l’asilo. Gli altri restano fuori. A partire da quelli col permesso di soggiorno per motivi umanitari, ora abolito.
Non entrano e così gli Sprar, che qui in Calabria hanno ripopolato paesini e creato posti di lavoro, vanno verso il fallimento. Anche se si vorrebbe trasferire in queste strutture parte degli immigrati della baraccopoli di San Ferdinando.
Per ora con risultati zero. Così si muove la Diocesi di Locri-Gerace fornendo agli immigrati usciti dagli Sprar o mai entrati quei servizi di integrazione che lo Stato non garantisce più. Ancora una volta la preziosa supplenza della Chiesa al fianco dei più deboli e fragili.
È il progetto di prevenzione e inclusione ‘Insieme si può’ promosso dalla Caritas diocesana in collaborazione col Centro diocesano per la Pastorale familiare ‘Amoris laetitia’ e il Centro di aggregazione ‘Fiori gioiosi’ dell’Associazione comunità Papa Giovanni XXIII. Un progetto che integra gli immigrati e aiuta i calabresi.
Perché i giovani stranieri dopo una specifica formazione opereranno anche a favore delle famiglie con figli disabili. Una risposta allo slogan ‘prima gli italiani’. Il progetto della durata di otto mesi è per ora partito con quattro giovani, uno dei quali sordomuto per una bomba in Libia, che altrimenti sarebbero finiti per strada o nella baraccopoli di San Ferdinando.
Poi si proseguirà con altri quattro. Una piccola, ma preziosa iniziativa, finanziata dalla Diocesi con propri fondi, in una situazione che sta diventando drammatica per il sistema Sprar. Anche per i tanti posti di lavoro che si stanno perdendo. Basta scorrere i numeri e tutto appare con chiarezza.
Lo Sprar di Ardore ha già dovuto chiudere ma altri si stanno svuotando perché dopo il decreto Salvini non arriva più nessuno. In quello di Monasterace, gestito dal Consorzio Goel, i posti finanziati dal ministero fino al 31 dicembre 2020 sono 25 ma quelli in realtà occupati sono solo 3. Due sono in uscita oggi, il terzo il 13 gennaio.
Se non ne arriveranno altri ben 12 persone perderanno il lavoro. Va appena meglio nello Sprar di Caulonia, gestito dalla cooperativa Pathos. I posti assegnati dal ministero sono 75, quelli occupati 70 ma 40 di loro dovranno lasciare il progetto nelle prossime due settimane. Dipendenti a rischio 16.
A Sant’Ilario dello Jonio, ente gestore cooperativa Eurocoop, tutti e 19 gli immigrati accolti, su 25 posti assegnati, usciranno entro il 24 aprile. A rischio 9 posti di lavoro. Così in tutti gli Sprar. Molto particolare la vicenda di Gioiosa Ionica, 46 presenti su 75 posti. Alcuni in proroga in attesa dei documenti, ma una volta arrivati dovranno uscire. L’ultimo ingresso è stato ad agosto con due persone. «Poi – ci dice il sindaco Salvatore Fuda – il 19 dicembre la prefettura di Reggio Calabria ci ha comunicato l’inserimento di dieci immigrati provenienti dalla baraccopoli di San Ferdinando. Ma non è arrivato nessuno. Quindi, dopo una settimana, come prevede la legge, l’inserimento è decaduto».
Cosa è successo? «Abbiamo chiamato la prefettura che ci ha detto che hanno avuto difficoltà a rintracciare i ragazzi. Ora stanno nuovamente facendo il lavoro di chiamata per chiedere se vogliono entrare negli Sprar. E faranno un nuovo invio. Ma molti di loro anche se hanno la possibilità non si vogliono inserire. Se hanno già la protezione preferiscono restare là dove c’è lavoro. Mentre qui lavoro non c’è. E ora è a rischio anche quello dei nostri 16 operatori».
E il sindaco si sfoga. «Il decreto sta provocando di fatto uno svuotamento. Così alla fine diranno che non c’é più l’esigenza degli Sprar. E tutti finiranno nei Cas e nei Cara o li manderanno alla fortuna nelle grandi città a occupare qualche luogo abbandonato. Poi toccherà ai sindaci occuparsene come problema di sicurezza».
E allora diventa davvero preziosa l’iniziativa della diocesi che, si legge nel progetto, vuole «fornire due risposte, una dove l’immigrazione diventa risorsa e sostegno per tutti, anche per i più deboli sempre più dimenticati dal sistema, l’altra di aiuto e sostegno ai migranti in cerca di una nuova dignità». Inoltre, si legge ancora, «coinvolgere i giovani migranti in percorsi formativi di sensibilizzazione alla disabilità è un ulteriore elemento d’inclusione sociale, dimostrando al territorio intero che insieme, indipendentemente dalla nazionalità, è possibile dare risposte anche alle molte famiglie di minori diversamente abili che vivono in condizioni di indigenza».
E i risultati dopo poche settimane già si vedono come ci spiega Silvia Ali, referente del progetto. «Sono una spugna, hanno una voglia di apprendere incredibile. E lo fanno fianco a fianco con ragazzi disabili, con molti momenti comuni».
Antonio Maria Mira
Avvenire
12 gennaio 2019