Sud Sudan, un Paese in attesa di nascere
Irene Panozzo
Si aprono domani le urne del referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan. Un voto atteso con trepidazione dalla popolazione, che spera in un futuro di sviluppo e pace.
Juba/Yambio – Un boschetto di alberi di mango e palme ai bordi di una strada di terra rossa, alcune decine di persone, uomini donne e bambini anche molto piccoli, in ascolto e in festa, un deputato del parlamento locale che spiega come votare, con gli ululati delle donne, espressione tipica di gioia e partecipazione, a sottolineare i passaggi più rilevanti del discorso. Scena di quotidiana electoral mobilisation, incontri pubblici per spiegare nei dettagli come esprimere il proprio voto a persone che di elezioni hanno scarsissima esperienza e che in molti casi sono analfabete. Ma che vogliono partecipare, perché attendono l’apertura dei seggi, domani mattina alle 8, come l’evento capace di per sé di cambiare il corso della storia del loro paese e delle loro stesse vite.
È questo il clima che si respira nelle città del Sud Sudan. Lungo la strada tra Yambio e Nzara, nello stato più sud-occidentale della regione, quello dell’Equatoria occidentale, al confine con la repubblica democratica del Congo. Ma anche a Juba, la capitale, e in altre città più a nord. Ovunque si susseguono dibattiti, comizi di personalità politiche più o meno importanti, incontri informali che hanno un unico tema: il referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan e l’attesa, quasi certa, vittoria della secessione. Che si parli con un gruppo di donne sfollate che vivono in situazioni di estrema povertà e precarietà o con professionisti in giacca e cravatta in città, la risposta è solo una: “voterò per la separazione, perché voglio che il Sud Sudan sia libero e indipendente”.
“Sono assolutamente convinta di votare per la libertà”, dice al manifesto Susanne Matthew Aliselmo, giovanissima cooperante che lavora con una ong straniera. “E sono sicura che le cose cambieranno. Il Sud Sudan sarà un paese diverso da quello che adesso. C’è speranza, una speranza al 100%”. All’obiezione che questo cambiamento non potrà che essere lento e difficile, Susanne non ha dubbi. “Certo che sarà duro, la realtà non può cambiare dall’oggi al domani. Ci vorrà del tempo, passo a passo. Ma in fondo se non ti lavi le mani, non puoi mangiare; se non mastichi, non puoi inghiottire. Per tutto c’è difficoltà e sofferenza, ma qui c’è anche molta, moltissima speranza”.
E determinazione: in molti avevano scommesso che alla fine il referendum sarebbe saltato. Fino a qualche giorno fa le liste dei cittadini sud-sudanesi che si sono registrati per votare non erano pronte. La registrazione stessa è iniziata in grande ritardo, a metà novembre, e si è temuto quindi che i tempi tecnici non fossero sufficienti a permettere lo svolgimento di un referendum in una regione grande due volte l’Italia, praticamente senza strade asfaltate, con un alto tasso di analfabetismo e comunità, almeno in alcune specifiche aree del Sud Sudan, in continuo movimento. Invece l’impossibile è diventato realtà. “È stato quasi un miracolo”, dice Giovanni Bosco, capo dell’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (UN-Ocha) a Juba. “Per preparare un referendum di questo genere ci vogliono di solito almeno diciotto mesi, qui tutto è stato fatto in sei e questo è veramente sorprendente”.
Tanto più che, è proprio Bosco a ricordarlo, “il Sud Sudan parte da standard di sviluppo molto bassi: gli indicatori sociali sono tra i più bassi al mondo, più del 60% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, i servizi sociali, sanitari ed educativi sono estremamente carenti”. Costruire uno stato indipendente da queste basi non sarà facile. Una strada in salita, che richiederà il costante e sostanzioso aiuto da parte di altri paesi e di agenzie e organizzazioni internazionali, governative e non. Ma d’altra parte “sono molti i paesi che in fase di ricostruzione hanno bisogno dell’aiuto degli altri”, continua Bosco. “Anche l’Italia, senza il piano Marshall, non avrebbe probabilmente avuto il boom degli anni Sessanta”.
Se il Sud Sudan sarà capace di rispondere alle altissime aspettative della sua popolazione in breve tempo è difficile da prevedere. Tutto lascia pensare il contrario, ma la determinazione e la speranza che si legge sui volti della gente potrebbe dare quella spinta in più per compiere un altro miracolo. Perché è chiaro che ormai si debba pensare al futuro di uno stato indipendente. Basta atterrare a Juba e camminare sulla pista dell’aeroporto per qualche minuto per capire che l’opzione unitaria, quella che permetterebbe al Sudan di rimanere il paese più grande dell’Africa entro i confini attuali, non è presa in considerazione, quasi come se solo citare la possibilità di un voto per l’unione di Nord e Sud Sudan non fosse politically correct. Prima ancora di entrare nel settore arrivi dell’aeroporto ci si imbatte in due grandi striscioni, “firmati” da un network di organizzazioni della società civile locale, che inneggiano alla secessione quale “voto per la dignità”. Un refrain che ricorre, insieme ad altri che ripropongono un messaggio molto simile, su mille manifesti, volantini, bandierine, magliette, cappellini che tappezzano la città o che vengono distribuiti durante i comizi.
Quelli meno espliciti, che non danno una netta indicazione di voto, raccomandano di votare pacificamente e secondo coscienza. Ma a girare per le strade di Juba o di altre città della regione non si ha la sensazione di tensione che fino a qualche mese fa ci si sarebbe aspettati. La tensione non è salita neanche quando, martedì scorso, il presidente della repubblica Omar al-Bashir è volato a Juba per l’ultima visita ufficiale prima del voto. È stato accolto dagli stessi canti della guerra di liberazione o per il voto a favore della secessione che si possono ascoltare, ripetuti per ore, ai comizi dei leader politici sud-sudanesi. Ma è stato accolto pacificamente, e pacificamente ha risposto. Il suo discorso, dai toni concilianti, è stato bene accolto dalla popolazione della capitale. “Sono rimasti tutti felici del discorso del presidente”, ci aveva detto il giorno dopo Joseph, un ragazzo sud-sudanese incontrato in una farmacia. “Ha parlato di partnership, di aiuto da parte del Nord per ogni bisogno che il Sud potrebbe avere e di interessi comuni. Soprattutto, ha promesso di riconoscere il risultato del referendum”.
Il rischio di scontri o addirittura di un ritorno alla guerra tra Nord e Sud, fino a qualche mese fa dato come probabile, seppur calato non è però completamente eliminato. Le parole del presidente Bashir fanno un po’ a pugni con quelle, molto più incendiarie, dette solo poche settimane fa da alcuni alti funzionari del suo partito. Le parole passano, restano invece una serie di problemi ancora irrisolti che potrebbero creare qualche intoppo anche di notevole importanza al processo di separazione del Sudan. Il trattato di pace firmato il 9 gennaio del 2005 a Nairobi, quello che ha garantito il diritto al referendum per l’autodeterminazione che comincia domani, non è stato applicato nella sua interezza. Rimangono alcuni nodi che vanno sciolti, altri che vanno ridiscussi perché il trattato scadrà il 9 luglio prossimo. E lo stesso varrà per alcune sue importanti parti, come l’accordo sulla spartizione delle risorse petrolifere. Divisione del petrolio e delle altre ricchezze del paese, demarcazione della linea di confine tra Nord e Sud, questioni legate alla cittadinanza nei due nuovi paesi, la questione – spinosissima – dell’area di Abyei, il cui referendum, che avrebbe dovuto essere svolto con contemporanea con quello sud-sudanese, è stato sospeso e rimandato a data da destinarsi: i sassi su cui inciampare non mancano e su molte questioni le posizioni di Splm e Ncp sembrano ancora molto lontane.
Ma a parlare con la gente, le questioni irrisolte passano quasi in secondo piano. “L’unione ci riporterebbe alla guerra”, ci dice Ben Tipiosa, un membro del parlamento dell’Equatoria occidentale. “È la secessione che ci permetterà di vivere in pace, perché potremo finalmente usare le nostre risorse. E non saremo un failed state, perché sappiamo cosa vogliamo e come ottenerlo”. E intanto, domani, un intero paese si metterà in fila.
Fonte: Lettera22, il Manifesto
8 gennaio 2011