Violenze ai migranti, in Libia clima di impunità


Avvenire


La procura dell’Aja accusa anche le autorità: «Stupri, rapimenti, estorsioni, schiavitù». Investigazioni anche a Tripoli, in arrivo richieste di arresto.


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«Preparativi per nuove richieste d’arresto». Lo scrive la Procura internazionale dell’Aja nel suo ultimo resoconto sulla Libia. E per la prima volta un gruppo di investigatori si è potuto recare a Tripoli affrontando non pochi pericoli per documentare, fra le altre, le gravi violazioni dei diritti umani sui migranti, che sono alla base dell’inchiesta che coinvolge anche appartenenti alla Guardia costiera libica.

A fine marzo l’ufficio della procuratrice Fatou Bensouda aveva confermato ad Avvenire l’esistenza di una inchiesta basata principalmente su prove fornite dall’Unsmil, la missione speciale della Nazioni Unite per Tripoli. In quegli stessi giorni, era in corso una operazione coperta dal segreto. «Nonostante la continua insicurezza, una squadra dell’ufficio del procuratore è stata in grado di recarsi in Libia per svolgere attività investigative».

Nel fascicolo d’indagine sono confluite migliaia di segnalazioni. Il contenuto resta riservato, ma l’Aja nel suo ultimo rapporto (il quindicesimo dal 2011) lascia intendere di avere in mano molte nuove informazioni. «L’Ufficio del procuratore rimane preoccupato per le notizie secondo cui i migranti sono sottoposti a detenzione arbitraria, torture, stupri e altre forme di violenza sessuale», oltre che a «estorsioni, rapimenti a scopo di estorsione, lavori forzati e uccisioni illegali». Inoltre, «ci sono report riguardo le aste degli schiavi».

Non sarà facile arrivare in fondo, perché le connessioni tra trafficanti di uomini, scafisti, esponenti delle forze dell’ordine ed emissari della politica locale sono molto strette, tanto che «in Libia prevale un clima di impunità». Le violenze su cui è aperta l’inchiesta riguardano sia migranti che libici finiti nella morsa delle milizie, reati che «continuano ad essere ampiamente riportati, compresa l’esecuzione sommaria di persone detenute, rapimenti, detenzioni arbitrarie, torture, vari crimini commessi contro i migranti in transito».

Lo scorso aprile era stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ad affidare al consiglio di sicurezza un dossier nel quale veniva accusata di violazioni dei diritti umani anche la Guardia costiera libica. La relazione venne acquisita dall’Aja insieme ad alcuni reportage giornalistici, tra cui quelli di Avvenire. E nel giugno 2017 era stata la procuratrice Bensouda a denunciare ancora una volta davanti al Consiglio di sicurezza a New York, quali fossero le condizioni dei migranti rinchiusi nei lager degli scafisti e nelle prigioni clandestine. A distanza di tempo sono stati compiuti pochi passi avanti.

Un Paese, la Libia, con cui l’Italia ha stretto accordi, vale la pena ricordarlo, proprio con l’obiettivo di contenere i flussi migratori. Nel dossier Guterres scrive che la missione internazionale su mandato Onu (Unsimil) ha continuato a documentare «la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/o intercettazioni in mare».

La Libia non ha aderito alle convenzioni per la giurisdizione internazionale dell’Aja, ma la Corte penale può intervenire anche a carico di Paesi non membri se a richiederlo, come in questo caso, è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che nel febbraio 2011 incaricò la magistratura dell’Aja a investigare. Da allora sono stati emessi cinque mandati di cattura, che le autorità di Tripoli non hanno ancora eseguito.

«L’Ufficio è preoccupato che l’attuale clima di impunità stia instaurando instabilità e insicurezza e ribadisce – si legge ancora nel rapporto della procura – il suo impegno a dare priorità alla situazione in Libia e destinare risorse alle sue indagini». Tuttavia, segnala l’Aja, «l’ufficio del procuratore generale libico sta compiendo sforzi per combattere questa impunità e, secondo quanto riferito, ha emesso un numero significativo di mandati di arresto per crimini legati ai migranti». Molto dipenderà dalla comunità internazionale, che specie negli ultimi mesi starebbe facendo mancare anche il necessario sostegno economico alle investigazioni.

All’Aja è arrivato anche il dossier di Amnesty International, diffuso la settimana scorsa. Nel mirino dell’organizzazione per i diritti umani ci sono soprattutto le politiche contro le ong portate avanti da Roma e La Valletta, ma con il placet dell’Ue, che nell’ultimo Consiglio ha stabilito il loro obbligo di non interferire con le attività in mare dei libici. Questa interdizione, secondo Amnesty, ha portato ad un «impoverimento di asset vitali dedicati al salvataggio», per privilegiare una politica di contenimento delle partenze. E quindi, la nuova ondata di vittime nel Mediterraneo «non può essere liquidata come una sfortuna inevitabile». Per i profughi che sopravvivono, c’è poi lo spettro dei maltrattamenti.

Proprio nei giorni scorsi a Roma il parlamento ha sbloccato l’invio di nuove motovedette ai libici. Il premier Giuseppe Conte ha rivendicato l’operato del governo, ricordando che gli sbarchi sono stati ridotti dell’85% e rilevando che questo dato equivale anche a «meno rischi» per coloro che attraversano il Mediterraneo. Secondo Amnesty, al contrario, abbandonare i migranti nelle mani della Guardia Costiera di Tripoli equivale ad esporli a violenze e violazioni dei diritti umani, una volta che vengono riportati a terra: oltre diecimila persone sono rinchiuse in venti centri di detenzione in condizioni estreme, tra cui il sovraffollamento e il caldo soffocante. Una cifra più che raddoppiata rispetto ai 4.400 registrati da marzo.

Una ipotesi, questa, che sembra trovare conferma nelle indagini del tribunale penale internazionale.

TRIPOLI: HAFTAR CHIEDE AIUTO A MOSCA. CASO DIPLOMATICO A MOSCA

La Libia rischia di precipitare in una nuova ondata di combattimenti. Nel Paese le battaglie, in verità, non sono mai state interrotte. Ma nei giorni scorsi, dopo che è stata data notizia dell’invio di 12 motovedette militari italiane alle forze navali alleate del governo riconosciuto del premier al-Serraj, il generale Haftar, che con il suo esercito controlla gran parte del Paese e si oppone a Serraj, ha chiesto ufficialmente un intervento armato della Russia. La notizia è stata rilanciata con la consueta enfasi dai media fedeli al Cremlino. Nella scorsa primavera Haftar è stato curato d’urgenza in un ospedale militare di Parigi, corroborando ulteriormente l’asse con Macron. Le sorti, perciò, dipenderanno molto dalle mosse del presidente francese (fu Parigi a scatenare la guerra in Libia nel 2011) e da quelle di Putin.
A complicare le cose ci si è messo un incidente diplomatico che ha coinvolto l’ambasciatore italiano a Tripoli. Alcuni giornali locali hanno riportato il testo di una intervista televisiva nella quale Giuseppe Perrone avrebbe sconsigliato di tenere le elezioni nazionali quest’anno, rimandandole a tempi migliori. La Commissione parlamentare per gli Affari esteri del Parlamento di Tobruk ha definito in una nota l’ambasciatore italiano «persona non grata», considerando le recenti dichiarazioni televisive come una «palese interferenza negli affari interni della Libia», una «violazione della sovranità nazionale, delle scelte e delle aspirazioni del popolo libico».
La Commissione afferma di considerare le parole di Perrone come un «insulto che richiede delle scuse», avvertendo che un «simile comportamento» potrebbe avere un «impatto negativo sulle relazioni tra Italia e Libia, danneggiando gli interessi dell’Italia in Libia». Il parlamento di Tobruk non riconosce il governo di al-Serraj e nel 2015 aveva nominato Haftar capo di stato maggiore. L’ambasciata italiana nella serata di ieri ha diramato una nota distensiva, ribadendo che Perrone nel corso dell’intervista non ha proferito alcun richiamo riguardo alle elezioni la cui decisione appartiene «solo ai libici». (N.S.)

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