Cos’è illegale, il Muro o il murale?


Paola Caridi - www.invisiblearabs.com


È il muro, dunque, a essere illegale. Non il murale. Semplice constatazione, questa, che però non passa attraverso le maglie della vulgata imperante.


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murales

E’ terra di paradossi e di profonde ironie, la terra di Israele e Palestina. Terra di narrazioni spesso in antitesi, in cui sono i dettagli gli elementi portanti dell’interpretazione della Storia. Terra in cui anche un murale può essere utilizzato per trasformare la lettura della realtà.

I fatti: Jorit Agoch arriva a Betlemme, si munisce di una scala molto alta (almeno quattro metri) e lavora per un lasso di tempo che non conosciamo a un murale di grandi dimensioni sul Muro di Separazione, lato palestinese. Il murale è imponente: alto, appunto, almeno quattro metri. Lo aiuta, con un’altra scala, un artista di cui non conosciamo sino a questo momento le generalità. Le foto che inondano i social (del cui autore, ahimè, non conosco il nome) mostrano il pregevole prodotto finito: il bel viso di Ahed Tamimi, la ragazza palestinese di 17 anni che gli israeliani hanno arrestato e tenuto in carcere per otto mesi. Il reato di cui è accusata: aver schiaffeggiato un soldato israeliano durante una delle quotidiane ronde compiute a Nabi Saleh, il paese cisgiordano in cui risiedono Ahed e la sua famiglia, protagonisti di un confronto almeno decennale con l’esercito di Tel Aviv. Ahed Tamimi è diventata in questo ultimo anno la figura iconica della resistenza all’occupazione dei territori palestinesi, attuata soprattutto dai comitati locali in Cisgiordania.

Jorit Agoch è uno street artist, un artista che produce graffiti di grande impatto e bellezza a Napoli. I numi tutelari della città immortalati da Jorit Agoch – da Diego Armando Maradona vicino allo scugnizzo Niccolò, sino a San Gennaro e a Massimo Troisi – coprono grandi superfici di palazzi partenopei, simboli anch’essi di una rinascita culturale e artistica ormai consolidata.

Per Betlemme, niente di nuovo. Gli street artist arrivano, producono graffiti, se ne vanno. i disegnatori palestinesi dedicano grandi murale a figure iconiche per il loro popolo, come Layla Khaled e Marwan al Barghouthi. I personaggi dello spettacolo internazionale, Roger Waters in primis, lasciano la propria firma sul muro. Papa Francesco ha anche rotto il protocollo e poggiato la sua mano sul muro, isolandosi in una preghiera di cui possiamo solo immaginare il contenuto, accanto a una delle tante frasi che sul muro i ragazzi palestinesi scrivono, durante le loro giornate spesso senza speranza di un futuro dignitoso. I giornalisti (me compresa) ne parlano, dedicando spazio alla resistenza pacifica e artistica che attraverso i graffiti stigmatizza un muro di cemento armato alto nove metri, costruito su terra palestinese occupata, espropriata, deturpata. Un muro della vergogna, insomma. Nessuno, sinora, ha mai obiettato. Neanche da parte israeliana. La resistenza artistica si consuma sul – per così dire – versante palestinese del muro. Il lato israeliano, d’altro canto, sarebbe irraggiungibile non per gli artisti. Per chiunque osi avvicinarsi, a suo rischio e pericolo.

Il più famoso tra i graffitari internazionali, Banksy, ha ‘abbellito’ il muro parecchi anni fa, sia Betlemme sia a Ramallah. Ha anche lasciato i suoi graffiti in giro per la città in cui la cristianità colloca la nascita di Gesù. E un anno fa, a sorpresa, a Betlemme ha anche aperto il Walled Off Hotel, l’albergo con la peggiore vista al modo. Il Muro di separazione, appunto. Il Walled Off Hotel è, peraltro, molto vicino all’enorme murale che Jorit Agoch ha dedicato ad Ahed Tamimi.

A Jorit Agoch, all’altro artista che ha disegnato il murale e al palestinese che li accompagnava, non è andata bene così come era andata a chi li aveva preceduti. Sono stati fermati dalla polizia di frontiera israeliana, sottoposti ad interrogatorio, tenuti in arresto e rilasciati dopo 24 ore. Probabilmente in attesa di essere espulsi e rimandati in Italia. L’accusa, afferma una dichiarazione ufficiale, è che abbiano “disegnato illegalmente sul muro, e quando la polizia di frontiera li stavano arrestando, hanno cercato di fuggire con la loro macchina”.

Traduciamo l’accusa in termini italiani? Hanno deturpato una superficie pubblica, e hanno fatto resistenza a pubblico ufficiale. Il problema è che, rispetto all’Italia, ci sono delle sottili differenze, tanto per usare un eufemismo. La prima, la più evidente, riguarda proprio il Muro di Separazione. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja lo considera illegale. Se n’è occupata un bel po’ di tempo fa. Sono infatti passati 14 anni da quando i giudici dell’Aja hanno stigmatizzato la costruzione del Muro, la violazione del diritto internazionale da parte di Israele, il rischio di annessione de facto di una consistente parte del territorio palestinese in Cisgiordania dove, sempre illegalmente, Israele aveva costruito vere e proprie città per i coloni. Riporto, per chi ha tempo e voglia, uno dei passaggi più importanti del testo emesso dalla Corte:

“The Court then sought to ascertain whether the construction of the wall had violated the above-mentioned rules and principles. Noting that the route of the wall encompassed some 80 per cent of the settlers living in the Occupied Palestinian Territory, the Court, citing statements by the Security Council in that regard in relation to the Fourth Geneva Convention, recalled that those settlements had been established in breach of international law. After considering certain fears expressed to it that the route of the wall would prejudge the future frontier between Israel and Palestine, the Court observed that the construction of the wall and its associated régime created a “fait accompli” on the ground that could well become permanent, and hence tantamount to a de facto annexation. Noting further that the route chosen for the wall gave expression in loco to the illegal measures taken by Israel with regard to Jerusalem and the settlements and entailed further alterations to the demographic composition of the Occupied Palestinian Territory, the Court concluded that the construction of the wall, along with measures taken previously, severely impeded the exercise by the Palestinian people of its right to self-determination and was thus a breach of Israel’s obligation to respect that right”.

È il muro, dunque, a essere illegale. Non il murale. Semplice constatazione, questa, che però non passa attraverso le maglie della vulgata imperante.

Il muro è illegale. È stato costruito sradicando interi oliveti, soprattutto a Betlemme. Decine di migliaia di abitanti sono tenuti prigionieri all’interno di un vero e proprio recinto di cemento armato. I soldati israeliani entrano a Betlemme, zona A per il processo di pace di Oslo, e arrestano cittadini italiani su suolo diverso da quello israeliano. Suolo dello Stato di Palestina, Stato numero 194 delle Nazioni Unite.  E’ tutto un paradosso. E’ tutto contro un sistema di regole internazionali che è stato costruito (con tutti i suoi vulnus e le sue manchevolezze) su una guerra mondiale. Se, però, qualcuno osa sfidare la vulgata corrente attraverso un murale, il suo gesto rischia di mettere in pericolo la narrazione. Il graffiti raffigurante Ahed Tamimi crea un vero e proprio problema di rappresentazione della realtà. E la reazione è l’arresto di chi ha ribaltato la lettura della realtà. La riflessione dev’essere stata lunga, tra le diverse autorità israeliane che si sono occupate della “questione murale”. Non si spiega altrimenti come mai abbiano arrestato gli autori del crimine (il graffiti di Ahed Tamimi) quando il crimine era già stato compiuto. Perché non li hanno fermati prima? Dopo molte ore (si suppone) in cui la polizia di frontiera ha osservato il piccolo cantiere del murale. Quante ore ci son voluto per completare un murale alto almeno quattro metri, immortalato da foto che sono state scattate da diverse prospettive? L’unico dato certo è che gli artisti sono stati arrestati pochissime ore prima del rilascio di una detenuta eccellente delle carceri israeliane. Proprio quella Ahed Tamimi raffigurata nel mega-murale di Jorit Agoch. Troppo, per la narrazione imperante. Artisti di strada realizzano una gigantografia iperrealista di Ahed Tamimi, l’icona dei giovani palestinesi (e non solo), proprio a poche ore dal suo rilascio, seguito da tutti i media internazionali.

Troppo, veramente troppo, per una Israele che deve contrastare le accuse sempre più diffuse di apartheid, ancor più diffuse a livello internazionale dopo l’approvazione della controversa legge su Israele come Stato ebraico approvata il 19 luglio scorso che ha fatto scrivere a Daniel Barenboim, uno dei cittadini più illustri, “di vergognarsi di essere israeliano”.

La domanda sorge spontanea: quando si arriva ad arrestare un artista di strada, autore di un pacifico e inoffensivo murale, non c’è una soglia morale (e non solo culturale) che è stata valicata? Houston, abbiamo un problema…

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