Strage a Gaza. Netanyahu elogia tiratori scelti
il Manifesto
Gerusalemme/Gaza. Ieri mentre a Gerusalemme gli Stati uniti inauguravano la loro ambasciata, a Gaza l’esercito israeliano apriva il fuoco sui dimostranti palestinesi. 52 morti e oltre 2mila feriti. Tra le vittime anche ragazzini. Per Netanyahu i soldati hanno protetto il confine di Israele
«I nostri coraggiosi militari proteggono i confini di Israele anche mentre stiamo parlando. Vi rendiamo onore!». La strage di Gaza è avvenuta ad appena 50 km da dove Benyamin Netanyahu, i suoi ospiti americani e i diplomatici anche di quattro Paesi dell’Unione europea, stavano inaugurando, tra cerimonie, sorrisi e strette di mano, l’ambasciata americana ad Arnona nella periferia meridionale di Gerusalemme.
Il premier israeliano ha avuto di nuovo parole d’elogio per i suoi soldati che ieri hanno fatto il tiro al piccione colpendo a morte oltre 50 palestinesi, alcuni quali dei ragazzini. E ciò che non hanno fatto i cecchini l’hanno completato aerei e mezzi corazzati.
Una prestazione meritevole di onori speciali visto che la vita dei palestinesi che non sembra aver più alcun valore. Non uomini, donne e bambini ma “terroristi” a qualsiasi età, a 14 come a 30 anni. E non importa che quei palestinesi uccisi e i 2410 feriti fossero disarmati, ad eccezione di tre, uccisi, secondo il portavoce militare, mentre piazzavano un ordigno sotto le barriere tra Israele e Gaza. «Hamas vuole distruggere Israele e ha mandato migliaia di persone verso le recinzioni, abbiamo il diritto di difenderci» ha proclamato Netanyahu dando il via al coro di coloro che si affretteranno a confermare: sì, erano tutti terroristi. Che due milioni di palestinesi vivano pure il loro ergastolo a Gaza, come bestie in meno di 400 kmq, con poca acqua, senza risorse, senza lavoro, senza elettricità, senza speranze.
Netanyahu giustifica la strage di ieri con il diritto all’autodifesa e a proteggere i confini del Paese. Ma lo stesso esercito israeliano dice che non ci sono state violazioni alle frontiere durante le manifestazioni. Ha parlato invece di (presunti) attacchi “concertati” alla barriera nel tentativo di infiltrarsi. I soldati in ogni caso non hanno esitato a sparare contro chi si avvicinava nel pieno rispetto, hanno rimarcato comandi dell’esercito, delle “regole d’ingaggio”.
Dall’altra parte nel frattempo contavano i morti, minuto dopo minuto. Le vittime sono tutte molto giovani, pochi avevano più di trent’anni. Che la giornata sarebbe finita in un lago di sangue, il più grande dall’offensiva israeliana del 2014, si è capito subito. Prima delle 14 c’erano già sette morti a Gaza. La carneficina è durata fino a sera quando i manifestanti sono arretrati. Negli ospedali è stato l’inferno, l’emergenza è andata avanti sino a notte fonda. I medici hanno fatto il possibile per strappare alla morte i feriti più gravi, spesso non ci sono riusciti. «Siamo sfiniti ma continuiano a lavorare, mentre i materiali sanitari si stanno esaurendo» ci raccontava il dottor Said Sehwel, dell’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «Il nostro è un piccolo ospedale eppure nelle ultime ore abbiamo soccorso circa 150 persone ed effettuato diversi interventi d’urgenza» ha aggiunto «alcuni dei feriti sono stati colpiti all’addome o al torace, uno al collo. Tre sono in condizioni molto gravi. E non abbiamo abbastanza gasolio per garantire che i generatori autonomi di elettricità possano funzionare nelle prossime 48 ore».
Una situazione altrettanto grave la raccontavano i medici di altri piccoli ospedali, cliniche e ambulatori che ieri hanno aperto le porte per accogliere i feriti meno seri ed evitare che si intasassero le sale operatorie degli ospedali più grandi e meglio attrezzati per i casi più gravi, come lo Shifa e l’Europeo di Khan Yunis. «Tutto il sistema sanitario di Gaza è al collasso eppure va avanti e continua a fare del suo meglio per assistere i feriti, alcuni sono poco più che bambini. Poco fa abbiamo rivolto un appello a donare il sangue», ci diceva ieri sera Nasser al Qidwa, il portavoce del ministero della sanità di Gaza. Fuori dagli ospedali madri in lacrime e padri con il volto tra le mani in attesa di sapere delle condizioni dei figli feriti gravi o morti e portati all’obitorio. Scene strazianti che non si vedevano dal luglio 2018, come i funerali improvvisati delle vittime alle quali le famiglie hanno preferito dare una sepoltura immediata.
Mohammed, Ezzedin, Alaa, Ismail, Fadel…Sono alcuni dei nomi delle vittime di cui nessuno chiederà. Per Israele erano solo terroristi.
Chissà se Jared Kushner, genero di Trump e inviato speciale per il dossier israelo-palestinese, sa che a Gaza gli ospedali possono lavorare solo grazie ai generatori. E che a Gaza si può morire per malattie da noi considerate facilmente curabili a causa del blocco. Questo giovane ricco americano dalla faccia da bambino al quale Trump ha chiesto di risolvere il conflitto mediorientale, si è permesso di affermare che «le manifestazioni di Gaza sono parte del problema e non parte della soluzione». Anche Kushner è intervenuto con un suo discorso alla cerimonia di 81 minuti con la quale gli Stati uniti hanno inaugurato la loro ambasciata a Gerusalemme tra le proteste dei palestinesi. Il presidente americano non c’era ma ha inviato un videomessaggio di due minuti e mezzo alla folta platea di invitati all’inaugurazione dell’ambasciata, molti dei quali esponenti di primo piano dell’Amministrazione e del Congresso. «Gerusalemme è la capitale d’Israele che è uno Stato sovrano e ha diritto di stabilire la capitale dove vuole», ha detto Trump attribuendosi poi il merito di aver realizzato ciò che i suoi predecessori, a suo dire, non avevano avuto il coraggio di fare. Poi, dopo aver appiccato il fuoco, Trump candidamente ha ribadito la volontà americana di «facilitare un accordo per una pace duratura e di sostenere lo status quo dei luoghi santi di Gerusalemme». Quindi la scena è stata tutta per il premier israeliano Netanyahu che ha ringraziato Trump e ha parlato di «momento storico» per Israele nel 70esimo anniversario della sua fondazione.
Solo a fine giornata si è sentita la voce del presidente palestinese Abu Mazen che ha condannato il massacro a Gaza e il trasferimento dell’ambasciata Usa. «Quello a cui abbiamo assistito non è stata l’inaugurazione di un’ambasciata a Gerusalemme ma l’apertura di un insediamento coloniale americano», ha commentato. Un po’ poco per un presidente che afferma di guidare un popolo che vive una delle fasi più critiche dalla sua storia.
Michele Giorgio
Il Manifesto
15 maggio 2018