Il Giro che viola i diritti dei palestinesi


Michele Giorgio


Parla la sportiva palestinese Malak Hassan: «Chi meglio di ‎un ciclista che ama lo spazio e la libertà può comprendere la condizione dei palestinesi chiusi tra posti di blocco ‎militari e il Muro?»


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Ciclista, ma anche una pugile. Malak Hassan ama lo sport, ogni sport. In ‎particolare il ciclismo e per questa ragione è stata tra le protagoniste lo scorso anno ‎della “Freedom Ride”, 500 km tra la Palestina e la Giordania. Una lunga pedalata ‎più che una corsa in nome dei diritti per i palestinesi e delle donne arabe. Malak in ‎questi ultimi anni ha percorso centinaia e centinaia di chilometri in sella alla sua ‎bicicletta ma sempre nelle minuscole aree autonome palestinesi in Cisgiordania, ‎mai a Gerusalemme.

‎«Vorrei poter assistere al Giro e pedalare intorno alla città ‎vecchia di Gerusalemme che è anche la nostra città. Purtroppo gli organizzatori del ‎Giro d’Italia hanno pensato solo ad incassare i milioni di euro messi a disposizione ‎da Israele senza tenere conto dei nostri diritti sulla città e dei nostri diritti come ‎popolo sotto occupazione», ci dice. Malak Hassan è uno degli attivisti palestinesi ‎della campagna #RelocateTheRace che per mesi, invano, ha chiesto agli ‎organizzatori del Giro 2018 di non far partire la corsa a tappe da Gerusalemme. ‎L’abbiamo intervistata a Ramallah dove oggi, in piazza Manara, è prevista un ‎manifestazione di protesta contro il Giro.‎

Vi siete impegnati nella campagna, assieme ad attivisti italiani e internazionali, ‎il Giro 2018 però parte da Gerusalemme.

È irritante l’atteggiamento degli italiani che hanno portato qui il Giro. Da un ‎lato dicono ai palestinesi di non dare una lettura politica a questa manifestazione ‎sportiva perché si tratta solo di ciclismo. Dall’altro hanno portato il Giro a ‎Gerusalemme con l’intento, dichiarato dal governo Netanyahu, di celebrare i 70 ‎anni della fondazione di Israele. E questo è un chiaro passo politico. Il Giro ‎celebra uno Stato che tiene sotto occupazione militare milioni di palestinesi e ‎viola diritti umani, lo dicono tante istituzioni internazionali. Inoltre la corsa ‎comincia con una cronometro a Gerusalemme che è al centro di un conflitto ‎politico, che ha uno status internazionale proclamato dalle Nazioni Unite e che ‎Israele occupa interamente, inclusa la parte palestinese.

Gli organizzatori del Giro ‎hanno preferito chiudere gli occhi. E se ben ricordo l’Italia è uno di quei Paesi che ‎alle Nazioni Unite hanno votato contro la dichiarazione di Trump su ‎Gerusalemme come capitale di Israele. Dare inizio al Giro a Gerusalemme perciò ‎ha violato anche la linea dello Stato italiano (nella questione israelo-palestinese). ‎Gli organizzatori hanno fatto l’esatto contrario di ciò che affermano, hanno ‎trasformato un importante evento sportivo in un evento politico.‎

Quanto ti piacerebbe pedalare per le strade di Gerusalemme‎?

Oh…sogno di farlo, così come i miei e amici e colleghi del gruppo ciclistico di ‎cui sono parte. Ma l’esercito non ci fa entrare. Ed è profondamente ingiusto che gli ‎israeliani e gli stranieri possano farlo e noi palestinesi no. Gerusalemme è anche la ‎nostra capitale. Gli israeliani la vogliono tutta per loro mentre noi, rinunciando a ‎una parte delle nostre rivendicazioni, abbiamo fatto una scelta: la zona ovest ‎‎(ebraica) a loro e quella est (palestinese) a noi. Una capitale per due Stati per ‎realizzare la pace di cui si parla tanto. Da parte loro però c’è sempre un netto ‎rifiuto. E il Giro d’Italia purtroppo è qui a celebrare questo rifiuto e la negazione ‎dei diritti e della storia.

Cosa ti piacerebbe dire ai campioni presenti al Giro che si sfideranno nella ‎crono a Gerusalemme?

Che li ammiro come atleti. Amo lo sport, ne conosco i sacrifici e perciò sono ‎orgogliosa di loro. Però un atleta deve vivere anche le realtà in cui si trova di volta ‎in volta durante la sua carriera e deve essere un esempio di rispetto per tutti. ‎Soprattutto chi va in bicicletta apprezza lo spazio e la libertà, quindi chi meglio di ‎un ciclista può comprendere la condizione dei palestinesi chiusi tra posti di blocco ‎militari, il Muro (in Cisgiordania) e le tante restrizioni israeliane ai movimenti da ‎un posto a un altro.‎

Michele Giorgio

5 maggio 2018

Il Manifesto

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