Ad Aida per capire la crisi dell’Unrwa


Chiara Cruciati - il Manifesto


Nel campo profughi di Betlemme la distribuzione di cibo è già sospesa. Per i rifugiati, però, non si tratta di una questione assistenziale, ma politica: tagliare i fondi all’agenzia Onu significa negare l’esistenza stessa dei rifugiati


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AidaCamp

Aida (Cisgiordania), 22 gennaio 2018, Nena News – All’ingresso del campo profughi di Aida, all’angolo con l’Intercontinental Hotel, staziona una jeep della polizia palestinese. È l’ultimo natale dell’anno, quello armeno, e il presidente Abu Mazen farà visita alla comunità di Betlemme. I poliziotti controllano la via stretta che conduce al campo e al primo murales che recita un «Welcome to Aida»: c’è da evitare che i ragazzini tirino pietre. Se ad Abu Mazen o ai soldati israeliani arroccati dietro al Muro non è chiaro.

Si fanno vedere anche i militari di Tel Aviv: escono dal cancello in metallo che taglia in due la strada che collegava Betlemme a Gerusalemme, si incamminano verso dei bambini che giocano lungo la barriera di cemento. Poi rientrano. Per le strade del campo, 5mila residenti in mezzo km quadrato, non c’è quasi nessuno.

Il cancello blu del centro di distribuzione di generi alimentari dell’Unrwa è chiuso, dentro non c’è niente. Nulla di strano, ci dicono, apre una volta ogni tre mesi per distribuire un centinaio di shekel (20 euro) tra farina, riso, zucchero, lenticchie e olio. «I servizi che oggi l’Unrwa offre sono scarsi e di bassa qualità – ci spiega Mohammed Abu Sosr, 27enne originario del villaggio di Beit Nattif, distrutto nel 1948 dai paramilitari sionisti – Scuole, cliniche e distribuzione di cibo, servizi importanti ma che sono costantemente peggiorati». La crisi dell’agenzia Onu che da quasi 70 anni gestisce i campi profughi palestinesi nei Territori Occupati e nella diaspora non è nuova: da anni i vari commissari fanno appello al mondo perché rispetti gli impegni, ma il budget si è gradualmente e pericolosamente assottigliato.

Ora la decisione Usa di tagliare 65 milioni di dollari getterà l’agenzia in una crisi ancora peggiore. Alla sospensione di metà della prima tranche di aiuti si è aggiunto giovedì un nuovo annuncio: cancellati altri 45 milioni, promessi a metà dicembre dal Dipartimento di Stato. Qualcuno interviene per tappare il buco: il Belgio invierà 20 milioni di dollari in tre anni.

La questione per i rifugiati, è politica e non assistenziale: «Attaccare l’Unrwa non significa solo privare i profughi degli aiuti, significa mettere in discussione il diritto a riceverne – continua Mohammed – Significa negarne l’esistenza stessa, il riconoscimento internazionale dello status di rifugiato. L’Unrwa, nonostante le crisi finanziarie, rappresenta l’impegno che il mondo prese nel 1948, la risoluzione 194 che ci riconosce il diritto al ritorno».

«Chiudano pure l’Unrwa – gli fa eco il collega Salim all’Aida Youth Center – Ma dovranno trovare una soluzione alternativa: metteranno tutto sulle spalle dei paesi che ospitano i profughi? Hanno già chiaramente fatto capire che siamo un peso, non se ne accolleranno un altro. C’è solo una soluzione: il ritorno in Palestina, porre fine a questa situazione ‘temporaneamente permanente’».

«Gli aiuti sono stati già tagliati, prima di Trump»: un’anziana signora, diventata rifugiata da bambina, ci apre la porta di casa. Si siede aiutandosi con un bastone e dalla sua bocca esce la frustrazione per 70 anni da esiliata: «Ogni tre mesi ci davano 100 shekel di cibo, ma non lo fanno più perché non ci sono fondi. E come dovrei vivere con 100 shekel ogni 90 giorni?». La scorsa settimana i cancelli del centro distribuzione dovevano aprirsi, ci spiegano a Badil (organizzazione nata in risposta agli Accordi di Oslo e impegnata per il diritto al ritorno), ma nessuno si è presentato e i pacchi alimentari non sono stati distribuiti.

Il timore vero è per scuole e cliniche, presenti nei 19 campi profughi in Cisgiordania e negli 8 di Gaza. Qui la situazione è esplosiva: 1,3 milioni di gazawi su 2 è registrato come profugo nella Striscia. Nei Territori Occupati l’Unrwa gestisce 363 scuole frequentate da 311mila bambini, 64 cliniche, tre uffici di micro-finanza e 19 centri per le donne.

E se i servizi sono carenti, ci sono comunque: «Toglierli – così ci saluta Mohammed – costringerebbe tante famiglie a fare salti mortali per trovare i soldi per educazione e sanità, togliendo tempo ed energia alla rivendicazione dei propri diritti». Una questione, appunto, politica.

Chiara Cruciati

Il Manifesto

21 gennaio 2018

 

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