Rita Atria, la picciridda di Borsellino che morì 25 anni fa
Avvenire
Figlia di una famiglia mafiosa di Partanna testimone di giustizia, aveva 17 anni quando si gettò dalla finestra appena seppe della strage di via D’Amelio.
Via D’Amelio e via Amelia. Paolo e Rita. Il magistrato nemico delle mafie e la ‘picciridda’, figlia di una famiglia mafiosa. Una storia di riscatto e di speranza, di fiducia nei giovani e in una vita pulita, che vince anche la morte. Quella di Rita Atria, 17 anni, la settima vittima di via D’Amelio, anche se la sua vita si ferma il 26 luglio 1992 sul marciapiede al numero 23 di via Amelia, a Roma, sotto il palazzone dove la ragazzina viveva tutelata dal Servizio centrale di protezione, testimone di giustizia, dopo l’uccisione del padre e del fratello, mafiosi di Partanna. Una scelta disperata dopo la morte di Borsellino, il suo nuovo papà. «Rita non la dobbiamo ricordare per la sua morte ma per la sua intelligenza che le diede la possibilità in pochissimo tempo di cambiare. È la storia drammatica di una ragazza che per la prima volta aveva trovato nella vita cose pulite e siccome era intelligente aveva capito la differenza tra le cose sporche in cui aveva vissuto e quelle pulite che aveva trovato».
Così la ricorda Alessandra Camassa, presidente del Tribunale di Marsala. Venticinque anni fa, giovanissima sostituto procuratore nella città siciliana, fu lei a seguire il percorso di collaborazione di Rita. Lei insieme al suo ‘capo’ Paolo Borsellino. «Paolo aveva una particolare predisposizione per i giovani, soprattutto per i più fragili. Più un ragazzo era fragile e più lo amava. Aveva questo spirito adottivo. Si sostituiva subito alla figura paterna. La sua era una vocazione. E quindi il rapporto con Rita è stato automatico. Faceva benissimo il magistrato ma gli riusciva ancor più bene fare il padre». E per Borsellino era fondamentale anche nella lotta alla mafia. «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo», diceva. «Quanto è importante investire sui ragazzi. È fondamentale», afferma anche la Camassa. Ed è anche l’eredità che ci lascia la ‘picciridda’, così come la chiamava Borsellino.
Lo sottolinea il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, che come come ogni anno sarà oggi al cimitero di Partanna. Sulla tomba, come aveva chiesto Rita, saranno poste una rosa rossa e un’orchidea. «Il suo sogno si è infranto il 19 luglio. La morte di Borsellino è un vuoto che ha risucchiato la sua fragile vita. Lei il 26 luglio si è affacciata sul balcone e si è lasciata morire. Ma io sono convinto che durante quel volo Dio l’ha abbracciata stretta e forte. Per noi vive, perché la sua vita spezzata ha generato tanti frutti. Soprattutto due: le donne di mafia che si ribellano ai padrini e i ragazzi della giustizia minorile, che hanno più o meno la sua età, che cercano altre strade, altri punti di riferimento, che fanno delle esperienze in un altro tipo di comunità, non quella mafiosa ma quella vera che riempie la vita di vita».
In fondo è proprio quello che Rita aveva scritto. «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo».
Rita sceglie di parlare seguendo l’esempio della giovane cognata Piera Aiello, moglie del fratello ucciso. «Quando comincia a collaborare con la giustizia – racconta ancora il magistrato – non pensa minimamente ‘ora aiuto i giudici’. C’è solo rabbia. Era venuta per vendicarli. E come può una ragazzina di 17 anni vendicare la morte del padre e del fratello? Certamente non si poteva mettere a sparare per strada pur conoscendo tutti i mafiosi amici del padre. E allora collabora con la giustizia. Ma per lei la giustizia erano i carabinieri che venivano a casa la notte. Nei primi colloqui mi dice ‘mio padre era un uomo straordinario perché ogni volta che rubavano le pecore, lui riusciva a farle restituire’. Io allora le faccio vedere i rapporti giudiziari e le dico, ‘guarda che tuo padre rubava le pecore e si faceva pagare per restituirle: si chiama estorsione’. Per Rita tutto questo è stato un vero percorso analitico, ha rivisitato la sua vita, ha reinterpretato le figure del padre e del fratello. In un anno ha cambiato testa. Le si leggeva in faccia il suo stupore. Non so come ci immaginava. Forse tutti vecchi e burbera. Invece Paolo era tanto affettuoso, io e la collega Morena Plazzi eravamo due ragazze, gentili, normali. Così lei pensa ‘e allora tutto quello in cui avevo creduto era sbagliato’. E si affida davvero in un modo personale a Borsellino. Morti il padre e il fratello, rifiutata dalla madre e dalla sorella, Paolo per lei era la salvezza. Era la figura maschile che le mancava».
E Borsellino la coccola, le fa regali, così anche la moglie Agnese. E Rita cambia anche nell’aspetto. «Quando partì dalla Sicilia aveva un vestitino con il pizzo, sembrava una donna dell’800, quando è tornata aveva una grande consapevolezza di sé». In fondo era «una ragazzina, ma dura, perché già la vita l’aveva traumatizzata. Mi diceva sempre: ‘dottoressa lei certe volte non può capire perché è troppo una brava ragazza’. E questo mi faceva sorridere perché faceva un po’ la grande con me, mi trattava da ingenua. E un po’ aveva ragione. Le sue paure, le sue ansie io non potevo comprenderle. La paura di una che che ha avuto quella vita non è quella che abbiamo noi, è una paura profonda». E poi il rapporto con la madre. «Lei lo capiva che era qualcosa di terrificante però diceva ‘mia madre è una donna che ha avuto grandi disgrazie. Io sono quella intelligente che deve andare verso di lei’. E si sorbiva delle minacce pesantissime. ‘Ti farò fare la fine di tuo fratello’, le diceva. Ma voleva che nei colloqui non la lasciassimo mai sola. Borsellino con la sua grande umanità cercava di trovare la quadratura del cerchio ma erano due mondi che non si potevano parlare».
Già perché la famiglia era ed è ancora convinta che la colpa delle scelte di Rita sia tutta di Borsellino e di Piera Aiello. «La madre – ricorda Camassa – denunciò Paolo per sottrazione di minore e fummo costretti a fare il procedimento al Tribunale dei minorenni per sospendere la patria potestà». E proprio la madre spezzò la lapide della tomba. Ora, dopo la sua morte quattro anni fa, la lapide è stata rimessa. Anzi due. Una di chi ha sostenuto la sua scelta, una della sorella. Fianco a fianco ma le parole e i pensieri restano diversi. Ma almeno il suo nome c’è. Nome e memoria
Ma c’è un modo molto concreto per onorarne la memoria. Approvare rapidamente la proposta di legge sui testimoni di giustizia. Il testo è uscito dall’inchiesta della Commissione antimafia nel maggio-luglio 2014. Come ci ricorda il deputato del Pd, Davide Mattiello, coordinatore dell’inchiesta, la commissione approvò all’unanimità una relazione nell’ottobre 2014. Poi alla fine del 2015 la proposta di legge sottoscritta da tutti i gruppi politici in commissione. A marzo 2017 è stata votata dalla Camera sempre all’unanimità. «Io ero il relatore – ricorda ancora Mattiello –. Al Senato, dove lo è Giuseppe Lumia, è stata incardinata in commissione Giustizia poche settimane fa. La sfida è che non sia modificata e così diventi rapidamente legge. Spero non ci siano sorprese dopo tutta questa unanimità».
Anche perché la proposta di legge è dedicata a Rita. Ed è importante perché definisce per la prima volta uno statuto autonomo dei testimoni di giustizia, rispetto ai collaboratori di giustizia. «Fino ad ora – spiega Mattiello – i testimoni sono stati trattati come una costola della normativa sui collaboratori, una scelta che genera confusione e nella confusione un certo mal trattamento». Invece, commenta la Camassa, «dobbiamo riconoscere il grande sacrificio dei testimoni. Il Paese dovrebbe tributare loro un ringraziamento continuo, perché è gente che cambia la sua esistenza, la propria vita, e per sempre». Proprio come Rita, la ‘picciridda’ di Borsellino.