Rita Borsellino: Paolo punto di riferimento per i giovani
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Intervista alla sorella del giudice ucciso dalla mafia che, alla luce della sua esperienza di parlamentare siciliana ed europea e del suo impegno civile, riflette sull’eredità del fratello e sulla situazione attuale
C’è un ulivo, in via D’Amelio, oggi simbolo di pace e dell’importanza della memoria. A volerlo, fu Maria Pia Lepanto, la mamma di Paolo Borsellino, che proprio in quella strada fu ammazzato, 25 anni fa. Era il 19 luglio del 1992 quando una Fiat 126 imbottita di tritolo uccise il magistrato e cinque agenti della sua scorta. Ma la sua eredità e il suo messaggio di giustizia resistono ancora oggi, come sottolinea Rita Borsellino, sorella del giudice e già membro dell’Assemblea regionale siciliana e del Parlamento europeo di Strasburgo. Per lei, Paolo è ancora vivo nelle parole, nella memoria e nelle scelte che l’hanno portata a raccoglierne il testimone.
Rita e Paolo è diventato un binomio inscindibile nella storia dell’Italia, ma forse lo è sempre stato anche quando eravate piccoli. Raccontaci un episodio da fratelli, quando la sintonia non era proprio perfetta.
Un binomio inscindibile, è vero, ma è quello che succede sempre tra fratelli. Noi eravamo in quattro ed eravamo molto legati, ma tra me e Paolo c’era una sintonia speciale anche da bambini e lui aveva un atteggiamento molto protettivo nei miei confronti, forse perché ero la più piccola. Lo esprimeva in modo strano: mi faceva tanti dispetti per conquistarmi e per potermi coccolare e stare poi più vicino. Anche da adulti avevamo un rapporto simpatico, fino a quando le cose diventarono difficili per i rischi legati al suo lavoro. C’è un episodio che è rimasto uno spartiacque nella nostra relazione e che non ho mai dimenticato. Si istituiva il maxiprocesso e io gestivo la vecchia farmacia di famiglia, quando Paolo arrivò con un’aria seria mi fece una domanda difficile: «Ce l’hai l’assicurazione sulla vita?». Io gli risposi di no e lui, guardandomi preoccupato, mi disse secco: «Falla!». Capì in quel momento che le cose erano cambiate, che Paolo non scherzava più e si preoccupava per me: in quel momento siamo diventati adulti e abbiamo dimenticato gli scherzi da ragazzi.
Quanto la figura di vostra madre è stata determinante nelle vostre scelte? Noi la ricordiamo ferrea nel volere l’albero di via d’Amelio dopo le stragi. Perché?
La mamma è stata determinante nella vita di tutti noi, e di Paolo particolarmente. Soprattutto quando le cose diventarono difficili divenne il suo punto di riferimento, e lui non rinunciava a venirla a trovare e a confrontarsi con lei. Quando Paolo è morto ha avuto l’idea di piantare un albero, qualcosa che ricordasse la vita e non troncasse con quella morte violenta il rapporto che la legava a lui. Ha avuto ragione lei perché questo ulivo, che tutti da 25 anni vengono a vedere, è un simbolo di speranza e di pace, un punto di riferimento collettivo per le scolaresche, i turisti, i palermitani, ed è diventato meta di un pellegrinaggio dove tutti sentono di voler lasciare qualcosa di sé a Paolo e di continuare il rapporto con lui.
Sono trascorsi 25 anni dalle stragi. Queste morti hanno cambiato qualcosa, ma non è che adesso rischiano di restare commemorazioni e di non incidere sul presente?
A me le celebrazioni non piacciono e le vivo proprio con sacrificio perché tendono a mistificare i risultati e a far sembrare che tutto va bene. I 25 anni dalla morte di Paolo li vedo riflessi in me, nei miei figli, nei miei nipoti, nati tutti dopo la sua morte. Per loro Paolo non è solo lo zio, anche se lo hanno conosciuto attraverso di noi, ma è un modello ed è un simbolo su cui hanno improntato la loro vita e il loro essere. La sorpresa per me è vedere ancora che, non solo loro ma i ragazzi delle scuole, hanno come punto di riferimento Giovanni e Paolo anche se non li hanno conosciuti: e questo significa che, pur avendoli incontrati nel passato, avendoli scoperti come modelli, se ne sono appropriati. E quel passato è diventato futuro, cambiamento.
Dopo 25 anni però lo Stato continua a tacere sui mandanti della strage. Come è possibile credere in uno Stato che Paolo ha servito fino a dare la vita e che invece continua a tradirti?
Quello che mi addolora ancora oggi è questo negargli la verità. Sul valore dello Stato Paolo ha dato una risposta proprio ad un gruppo di studenti in Sicilia che se ne lamentavano. «Lo Stato è fatto di uomini e io sono un uomo dello Stato – rispose -. Ma è uomo dello Stato anche chi lo tradisce e bisogna distinguere e giudicare gli uomini, mai le istituzioni perché sono sacre e non vanno colpevolizzate. Bisogna cambiare gli uomini e giudicare gli uomini». A questa sacralità lui ha creduto fino alla fine, anche quando sapeva già di essere stato tradito.