Profughi dell’Uganda: sopravvissuti mangiando erba


La Stampa


Ogni anno 1 milione di migranti rischia la vita per scappare dal Sud Sudan. In fuga da guerra civile e fame, molti disperati vengono uccisi nel tragitto


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rifugiati_Uganda

La quiete apparente sulla strada sterrata che collega il villaggio sud-sudanese di Isohe a Tsertenya, frontiera con l’Uganda, è interrotta dalle grida di donne e bambini. Dagli arbusti secchi della savana sbucano sagome nere scheletriche. In lontananza, si materializza un camioncino. Inizia una corsa confusa e disperata nella canicola poco sopra l’Equatore. Non c’è posto per tutti. Chi riuscirà a salire, dopo giorni di fuga dai villaggi sud-sudanesi distrutti dalla guerra tra ribelli e forze governative, sarà ormai a pochi chilometri dalla salvezza: l’Uganda.

 

Chi rimarrà a terra, dovrà tornare a nascondersi, mangiare piante selvatiche e aspettare il prossimo turno. Un business redditizio gestito dai pochi uomini della regione non coinvolti nel conflitto civile che sta lacerando il Sud Sudan con oltre 50 mila morti già accertati. Ogni giorno circa 3 mila persone scappano da guerra e fame verso i campi di rifugiati del Nord dell’Uganda. Una crisi umanitaria infinita. Secondo l’Unhcr, il numero di profughi sud-sudanesi ha superato il milione solo in Uganda che, con una popolazione di 39 milioni di persone, si è trasformato nello Stato con più rifugiati in Africa e tra i primi tre al mondo.

 

Dalla frontiera di Tsertenya-Palabek quasi tutte le mattine ne passano un centinaio. Le autorità lo sanno e predispongono il primo cordone per accoglierli ed iniziare le pratiche di registrazione. Con le poche forze rimaste scendono a piedi nudi dal camioncino. Alcuni portano sedie in plastica, le donne taniche gialle per l’acqua, gli anziani delle galline, c’è chi ha persino una bicicletta. Nessuno ha una valigia. I pochi averi sono avvolti in lenzuola bucate e scolorite. Non sono viaggiatori, bensì migranti, costretti a lasciare capanne di terra e fango da cui mai avrebbero voluto separarsi. Li attendono i cooperanti di un’agenzia umanitaria incaricata da Unhcr alla registrazione e alla distribuzione di generi di prima necessità prima di essere trasportati con degli enormi pullman nei campi profughi ugandesi. Un’immagine che si ripete nelle continue crisi umanitarie che attanagliano questa regione dell’Africa. Nome e cognome, le impronte digitali prese con un inchiostro blu. Alcuni non sanno l’età, molti sono bambini non accompagnati: i genitori sono stati uccisi dai miliziani nei villaggi. Ricevono una saponetta, tre confezioni di biscotti energetici. Le donne un pacco di assorbenti.

Grace, una madre di 32 anni, senza marito e con sei figli al seguito, apre con i denti l’involucro di biscotti. Il più piccolo dei suoi figli ha la pancia vuota, non mangia da giorni e reclama. «La mia famiglia è stata decimata dai ribelli – racconta la donna –, se fossimo rimasti, i prossimi saremmo stati noi. La notte è impossibile dormire per il rumore degli spari, la mattina quando ti svegli, a terra trovi solo cadaveri. Negli ultimi mesi abbiamo mangiato solo erba, non c’è cibo, siamo stremati. Speriamo in Uganda di poter stare al sicuro e che i miei figli possano mangiare ed andare a scuola».

 

Storie di disperazione con il comune denominatore della guerra e della fame condivise sui pullman che li porta a Palabek, distretto di Lamwo, Nord dell’Uganda. Un campo appena nato, che può contenere fino a 50 mila persone, costruito dall’Unhcr per sopperire al flusso continuo di rifugiati. Le strutture di Bidi Bidi e Palorinya sono al collasso: oltre 450 mila persone in totale.

 

Nuove città-limbo abitate da anime in transito. A pochi chilometri da Palabek si inizia ad intravedere un’immensa distesa bianca, che contrasta con la terra rossa e la vegetazione verde rigogliosa. Sono le tende che ospitano i rifugiati. Alcuni dei profughi, soprattutto bambini, vengono subito trasferiti nell’ospedale mobile: vaccinati e intubati quelli malnutriti. Altri si mettono in fila per ricevere il primo pasto. A tutti viene consegnata una carta d’identità che gli permetterà di muoversi in Uganda. La prima notte la passano in tenda, uomini separati da donne e bambini. In un’altra anziani e disabili. Il giorno dopo ad ognuno viene assegnato un fazzoletto di terra da 30×30 metri e dei semi per coltivare. Lì sorgerà la loro nuova casa, una piccola oasi immersa in un deserto di dolore. «Stavo andando con mio marito a cacciare topi nella savana, poi all’improvviso a Pajok sono arrivati i militari dell’esercito e si è scatenato l’inferno – ricorda Ayaa, una madre con 4 figli appena arrivata a Palabek – mio marito è stato arrestato, io sono riuscita a nascondermi con i miei figli. Ho aspettato ore prima che i militari se ne andassero, quando sono uscita a terra c’erano decine di cadaveri. Ho gli incubi tutte le notti». Accanto a lei c’è Ocan, prima di fuggire da Pajok faceva il maestro di scuola. «I bambini mi hanno avvisato che stavano entrando i militari, li ho fatti uscire di corsa, ma era troppo tardi, nella fuga molti sono stati colpiti dai proiettili – ricorda sconvolto –, ho visto i corpi a terra degli amici dei miei figli. Non tornerò mai più in Sud Sudan».

LORENZO SIMONCELLI
PALABEK (UGANDA)

4 giugno 2017

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