I palestinesi sullo Stato unico di Trump
NEAR EAST NEWS AGENCY
I palestinesi devono affermare con chiarezza che il solo presupposto necessario per una pace duratura è la giustizia nella propria terra. L’opinione di Alaa Tartir e Taroq Baconi.
(traduzione di Rosa Schiano)
Il ruolo dell’amministrazione statunitense di broker disonesto per la pace tra palestinesi e israeliani non avrebbe potuto avere una rappresentazione migliore di quella offerta dalla conferenza della scorsa settimana con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
L’incontro tra questi due leader ha rappresentato un punto di svolta per i palestinesi. Secondo il New York Times, è stata la prima volta dall’inizio del processo di pace che un presidente americano abbia pubblicamente allontanato l’idea che la soluzione dei due stati sia l’unica strada praticabile per la pace.
In uno spazio di pochi minuti, il presidente Trump ha cancellato decenni di una diplomazia americana accuratamente coltivata, sebbene profondamente sbagliata e di parte. Resta ancora da vedere se la “nuova idea” di Trump comporterà l’allontanamento dalla difettosa formula della soluzione dei due stati nel corso della sua presidenza.
Netanyahu non ha perso tempo nel dettare una visione alternativa, che Trump pare sia stato incapace – o non abbia voluto – ripudiare. Come condizione per la pace, Netanyahu ha dichiarato che i palestinesi devono riconoscere Israele come stato ebraico e acconsentire al controllo continuo da parte della sicurezza israeliana su tutto il territorio ad ovest del fiume Giordano.
Inoltre, secondo la visione comune dei due leader, verrebbe adottato un approccio di tipo regionale al fine di imporre un accordo o un sistema ai palestinesi, normalizzando al contempo le relazioni tra Israele e gli alleati arabi regionali dell’America.
Il modello proposto da Netanyahu, se mai ne sia esistito uno, è l’articolazione più ovvia della realtà dello stato unico. La sua versione di questa realtà è quella in cui Israele trattiene un assoluto controllo territoriale sull’intero territorio del Mandato britannico della Palestina, senza conferire alcun diritto politico agli abitanti palestinesi di quel territorio.
Non si tratta di una prospettiva nuova. Persino il leader israeliano Yitzhak Rabin, sostenuto come figura di pacificatore, annunciò alla Knesset nel suo discorso sulla ratificazione degli Accordi di pace di Oslo, “vorremo che questa [entità palestinese] sia meno di uno stato.”
L’obiettivo e i presupposti per la pace annunciati da Netanyahu sono essenzialmente errati e diametralmente opposti alle richieste palestinesi dei diritti internazionalmente sanciti.
Il modello dello stato unico non lascia spazio al diritto all’autodeterminazione a cui aspira il popolo palestinese creando un proprio stato su quello che attualmente sono i Territori Palestinesi Occupati della Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est.
Piuttosto, il modello proposto da Netanyahu lascia agli abitanti palestinesi dei territori lo status di cittadini di seconda classe: vivere in un inglobante stato ebraico che nega loro cittadinanza o diritti politici, in altre parole, apartheid.
Infatti, l’unico presupposto per la pace, decisamente assente dalla conferenza stampa, è la fine dell’occupazione militare israeliana di un altro popolo, un atto di guerra che dura ormai da cinque decadi.
Che l’esito sia uno stato o due è irrilevante finché esso non sarà basato sulla fine dell’assoggettamento militare del popolo palestinese come primo passo verso l’ottenimento dei diritti palestinesi. Qualsiasi deviazione da questo presupposto è una deviazione da una pace autentica e duratura.
E quindi, cosa devono fare i palestinesi sulla scia di queste intenzioni pubblicamente dichiarate di trasformare l’occupazione israeliana in una forma di controllo permanente legittimata e autorizzata dagli Usa?
Per prima cosa, l’attuale leadership dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) e l’Autorità Palestinese (AP) devono smettere di vivere nel mito dello stato.
La prospettiva espressa da Netanyahu riflette con onestà il punto in cui ora si trova Israele. Non dovrebbe esservi alcun dubbio sul fatto che ciò che resta della sovranità dell’AP non si trasformerà mai in qualcosa di più delle funzioni amministrative che le sono state assegnate dagli Accordi di Oslo.
Invece di accettare una sovranità tronca, i palestinesi devono con decisione volgere il passo verso un progetto nazionale basato sui diritti che miri a conseguire l’uguaglianza per tutti gli abitanti tra il fiume e il mare.
L’OLP deve definitivamente annullare il sopravvissuto modello degli Accordi di Oslo e smettere di sostenere i costi dell’occupazione di Israele. Ciò potrebbe anche comportare l’immediata riconfigurazione delle funzioni dell’AP, soprattutto in materia di coordinamento per la sicurezza con Israele.
Tale riconfigurazione è fondamentale se la leadership palestinese intende diventare un attore importante nelle traiettorie diplomatiche che si stanno ora sviluppando.
Il discorso di Abbas previsto alla fine di questo mese alle Nazioni Unite a Ginevra gli offre un’occasione tempestiva per inviare alla comunità internazionale il messaggio deciso che i palestinesi non staranno più alle regole di questo “processo di pace”.
Allo stesso modo è importante che la leadership palestinese affronti queste nuove minacce, espresse da una ancor più cinica alleanza Trump-Netanyahu, assolvendo al proprio compito atteso da tempo. La decennale divisione intra-palestinese è un punto di partenza essenziale.
Se Hamas e Fatah vogliono essere al servizio della lotta palestinese per l’autodeterminazione, essi devono porre definitivamente gli interessi nazionali al di sopra delle proprie aspirazioni di partito. Il raggiungimento dell’unità nazionale rafforzerà i palestinesi nella resistenza davanti al tentativo di sopprimere le loro aspirazioni nazionali.
L’unità nazionale deve essere basata sul ripristino di processi decisionali partecipativi all’interno della OLP. La crisi di legittimità dell’attuale leadership è assolutamente debilitante. Deve essere presentato un programma politico inclusivo per la nascita di una futura leadership che renda conto al proprio popolo e alle sue aspirazioni.
Nel concentrarsi su queste urgenti riforme interne, la leadership palestinese deve al contempo accertarsi che le nascenti alleanze locali tra Israele e altri stati nella regione non avvengano a scapito dei diritti dei palestinesi.
Il passaggio a una battaglia basata sui diritti che si disfi della rappresentazione di uno pseudo-stato defunto, il raggiungimento dell’unità e la pressione su alleati regionali sono azioni completamente fattibili e realizzabili, se esiste la volontà politica.
I palestinesi non devono restare a guardare mentre Netanyahu, incoraggiato da una plasmabile amministrazione Trump, consolida la propria visione suprematista di estrema destra sul territorio palestinese. I palestinesi hanno una serie di strumenti a propria disposizione a livello internazionale che possono salvaguardare i loro diritti e condurre al sostegno di spese per le violazioni da parte di Israele.
Nel rilanciare queste iniziative internazionali, i palestinesi devono affermare con chiarezza che l’unico presupposto realmente necessario per una pace duratura è la giustizia nella propria terra, qualsiasi sia il quadro politico.
Alaa Tartir è direttore di programma di Al-Shabaka: la rete politica palestinese (Palestinian Policy Network). Egli è anche ricercatore post-dottorato presso il Geneva Centre for Security Policy e ricercatore in visita al Graduate Institute’s Centre on Conflict, Development, and Peacebuilding di Ginevra, in Svizzera. Segui Alaa Tartir su Twitter: @alaatartir
Tareq Baconi è la collaboratrice negli Stati Uniti di Al-Shabaka: la rete politica palestinese (Palestinian Policy Network). Il suo libro, Hamas: The Politics of Resistance, Entrenchment in Gaza, è in uscita con Stanford University Press.
Fonte: http://nena-news.it
25 febbraio 2017