Senza diritti e senza identità
NEAR EAST NEWS AGENCY
Il dramma dei richiedenti asilo politico in Israele. Storia di Constance e della clinica di Giaffa dei Physicians for Human Rights.
Giaffa, 18 ottobre 2010, Nena News -Constance M. si lamenta per il dolore al ginocchio. La rotula è seriamente danneggiata. Bisogna che sia operata al più presto ma all’ospedale di Tel Aviv le hanno chiesto 50.000 shekel (circa 10mila euro) per l’intervento. Soldi che lei non ha. Così per ora rinuncia all’operazione e aspetta.
Cinquant’anni, cristiana, sposata, Constance M. viene dal Sudafrica e dal 2007 vive e lavora in Israele. E’ uno dei 25.000 «asylum seeker» (richiedenti asilo) ma per il governo di Netanyahu lei non esiste. Non ha diritti. Tanto meno quello all’assistenza sanitaria.
«Da qualche mese non lavoro perché non posso camminare», racconta.
Un mercoledì pomeriggio però si è fatta coraggio, si è messa in fila fuori alla clinica dei Physicians for Human Rights (Medici per i Diritti Umani), a due passi dal centro della vecchia Giaffa. Ha aspettato l’apertura del cancello fino alle quattro come tutti gli altri.
Yael, Ran e i medici volontari della Ong israeliana – che ha vinto di recente il Primo Nobel Alternativo – le hanno dato un numeretto e quando è toccato a lei un medico generico l’ha visitata e uno psicologo l’ha ascoltata. Tre ambulatori, una piccola farmacia con medicinali di ogni tipo, un reparto per le donne in gravidanza e un centro d’ascolto. PHR è una piccola oasi di salvezza per i migranti ed i profughi.
Costance M. ha raccontato del lavoro, del ginocchio, della sua precarietà di vita. Ha detto d’aver richiesto al governo di Israele lo status di rifugiato politico ma che nessuno gliel’ha concesso finora.
«Dal 1948 ad oggi solo 170 persone hanno ricevuto lo status di rifugiato in Israele, tutti gli altri sono richiedenti asilo», precisa Ran Cohen, direttore del dipartimento per i migranti di Physicians for Human Rights.
Arrivano dopo varie peripezie da Eritrea, Sudan, Darfur, Sudafrica, Liberia. Attraversano di notte la frontiera – molti di loro vengono arrestati e persino uccisi dalle guardie di confine egiziane -ed entrano definitivamente in Israele solo dopo un periodo di detenzione nella prigione di Ketziot nel Negev, che può variare da sei mesi ad un anno e oltre. Per i sudanesi senza visto la prigione dura di più. Il Sudan è nella lista nera dei paesi «nemici» di Israele perché musulmano.
La trafila più o meno è la stessa: i profughi vengono «traghettati» da gruppi di beduini del deserto – dietro consistenti compensi e dopo esser stati spesso ostaggio di bande criminali – dall’Egitto alla frontiera con Israele, che non è completamente chiusa. «Almeno finchè non verrà costruito un muro al confine con l’Egitto, come suggerisce Lieberman», spiega Ran.
«Da lì sono deportati a Ketziot – aggiunge Ran – anche noi attivisti per i diritti umani non possiamo entrare a controllare le loro condizioni, ma comunque sappiamo, perché ce lo raccontano quando poi arrivano qui, che sono pessime». «Io sono stata in prigione due volte. E per cosa?», si domanda Constance M.
Ketziot è una sorta di far west del diritto dove la legge, il tempo e lo spazio sembrano senza confini. Dopo mesi di carcere chi esce è finalmente libero di cercarsi un lavoro. Che spesso però non trova. Una volta arrivato a Tel Aviv, Jaffa, Herzeliya, è un fantasma senza identità. E se si ammala ha poche chance.
Miron M. ha lo sguardo torvo, è spaventato, non parla. Ha delle brutte ferite alle mani. Il suo amico Salomon Y. racconta che è appena arrivato dall’Eritrea, dopo aver attraversato il deserto, da una settimana vive in Israele e nessuno l’aveva visitato prima. «In realtà l’ho conosciuto oggi, viveva per la strada… Ma è già diventato un amico. Siamo dello stesso paese», spiega Salomon Y.
Physicians for Human Rights è nata anche per questo. Oltre che per assistere gli arabi palestinesi in Cisgiordania, i beduini del Negev, le donne violentate, le minoranze etniche in Israele e per raccogliere testimonianze ed elementi utili a stilare report e documenti. Come quelli che riguardano la vita di persone come Constance M., Salomon Y. e le ragazze sudanesi.
«Lavoro nel campo dei diritti umani dal 1995, prima della creazione di questa organizzazione. Molte cose sono cambiate in peggio in Israele negli ultimi dieci anni», spiega il direttore esecutivo di PHR, Hadas Ziv, «Direi che la società civile israeliana è molto meno attiva e questo governo sempre più di destra. Ha l’ossessione della demografia. Se andrà in porto questa decisione di giurare sullo stato ebraico, sarà un grave errore per tutti».
E per gli immigrati, africani, non ebrei, perseguitati in patria, che tutele esistono?
«L’unica legge che abbiamo in materia di emigrazione in Israele è quella che dice che ogni ebreo da qualsiasi parte del mondo arrivi, sarà accolto nella sua patria ed avrà una cittadinanza israeliana. E’ la nostra legge fondamentale. Per il resto non c’è alcuna regolamentazione per rapportarsi ai rifugiati politici», spiega Ran.
Negli ultimi tre anni i richiedenti asilo sono aumentati notevolmente, ogni mese ne arrivano almeno 700. Il problema è che una volta superato l’ostacolo della detenzione alla frontiera con l’Egitto, queste persone vivono senza identità. Finchè qualcuno non decide di tornarsene in patria.
«Se è uno Stato democratico questo?» si chiede Hadas «Qualcuno dice che lo è solo entro i confini della linea verde. Ma è democrazia quella che consente libertà e giustizia solo dentro casa propria? Non so. In qualsiasi paese io dovessi andare probabilmente combatterei per la giustizia. Ma in Israele, certo, la lotta dovrebbe essere ben più radicale. Non sto lanciando un appello alla rivoluzione ma al dissenso e alla resistenza, questo sì!».
Fonte: Nena News
18 ottobre 2010