Armare gli aerei italiani?


Emanuele Giordana - Lettera22


I dati dei rapporti sulle vittime civili e una conversazione con Fabrizio Foschini dell’Afghan Analyst Network. Il ministro La Russa e le opinioni – molto diverse – degli afgani. Da Kabul Emanuele Giordana.


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Armare gli aerei italiani?

Se c'è un argomento che suscita in ogni afgano risentimento, rabbia o preoccupazione questo è il tema delle vittime civili. Quando parli della guerra, può essere un contadino, un avvocato, un profugo o persino un membro del governo, il primo pensiero va alle vittime innocenti. La maggior parte tra loro è da imputare ai talebani, secondo quanto dicono i rapporti sulla morte quotidiana, ma la  maggioranza delle vittime ascritte alla Nato e agli americani si deve invece ai raid aerei che, in maniera indiscriminata, uccidono, si dice, almeno in un rapporto di uno (guerrigliero)  a cinque (civile). Approssimazioni per l'altro, perché  troppo spesso, da una parte e dall'altra, le cifre vengono gonfiate o  nascoste.

Ogni giorno  vengono uccisi in media 14 civili. Nei  primi sei mesi del 2010 si è registrato, all'alba del decimo anno di guerra, il numero più elevato di morti e di feriti tra la popolazione (stesso discorso vale anche per i militari occidentali, specie americani e britannici. Più difficile invece la conta dei soldati  afgani perché Kabul non dà cifre). Secondo Afghanistan Rights Monitor, nel primo semestre dell'anno, l'Afghanistan ha visto morire 1.074 civili: oltre 1.500 invece i feriti. Il 2010, secondo  ARM, si configura dunque come l’“anno peggiore” dall'inizio del conflitto, un refrain per altro che si  ripete annualmente.

Il  2009 si era del resto concluso col solito aumento: 2.412 vittime contro le 2.118 dell’anno precedente. Una crescita, dice un documento di Unama, la missione Onu a Kabul,  del 14%.  Sono diminuite, come dicevamo, le morti attribuite alle forze occidentali o all’esercito afgano, mentre la guerriglia ha ucciso 530 persone in più rispetto all’anno prima, un aumento del 41% dovuto alla crescita degli attacchi suicidi. In sostanza  due terzi delle vittime civili sono da imputarsi alla guerriglia  mentre  un terzo ( – 28% rispetto al 2008) è da imputare alla Nato, agli americani e all’esercito afgano (con un oscuro 8% di  non attribuibili). Uanma però rilevava  anche che il 61% delle vittime da ascriversi agli occidentali  sono state uccise durante raid aerei. Quelli in cui sembra il ministro La Russa voglia coinvolgere il contingente italiano.

Per capire meglio cosa possa significare armare i caccia con le bombe e, dunque fare un salto di qualità, andiamo alla sede di Afghanistan Analysts Network (AAN), un centro di ricerca molto accreditato a Kabul. E commentiamo le parole del ministro con Fabrizio Foschini, risorsa italiana dell'Ann.  Foschini è stato la prima volta in Afghanistan nel 2003 e da allora ci passa lunghi periodi. Parla anche un ottimo dari, una delle due lingue più importanti.

“Che i bombardamenti siano la cosa più odiosa di una guerra è abbastanza ovvio – dice – e anche la loro efficacia, da qualsiasi punto la si voglia vedere, è molto dubbia, ma nel caso specifico bisogna valutare il terreno: stiamo parlando di tre distretti del Farah passati sotto controllo italiano. Due di questi, il Gulistan appunto, e Bakwa, sono considerati tra i più instabili di una regione, il Farah in generale, che è area di guerra vera e propria dal 2006, direi per tre motivi: l'infiltrazione talebana da Sud, anche per via della pressione esercitata nell'Helmand da americani e britannici; gli effetti dei raid aerei, che hanno creato risentimento e odio e alienato in molti casi il favore della popolazione civile. E, ultimo argomento ma non meno importante, la presenza di un piccolo ma diffuso gruppo di potere legato a Karzai che fa il bello e il cattivo tempo e che gestisce il 90% dei “posti” importanti. Ciò ha suscitato ulteriore risentimento e ovviamente ha creato degli “esclusi”: gente che per i talebani diventa facile reclutare. In altre parole – conclude Foschini – non so se l'approccio italiano che, comunque lo si voglia giudicare, ha funzionato nella regione di Herat dove la presenza talebana è minore, qui abbia le stesse possibilità di funzionare. In un certo senso la gestione precedente, e le scelte del governo centrale, hanno fatto terra bruciata. Da questo a pensare di armare gli aerei ce ne corre perché, come spiegano molti osservatori, un ciclo di violenza ne richiama altra e alla fine finisce per favorire proprio la guerriglia”.

 

Se la notizia della giornata ieri in Afghanistan riguardava  l’ammissione ufficiale del governo afgano, anzi dello stesso Karzai,  che ebbene sì, si sta trattando coi talebani, molte altre le hanno fatto da corredo. Ad esempio la polemica che riguarda la morte della trentaseienne scozzese Linda Norgrove, sequestrata a Kuanr nell’Est (zona dov’è in corso tra l’altro una vasta offensiva talebana) e che pare sia stata causata da una granata lanciata dalle forze speciali americane che la volevano liberare. Effetto collaterale indesiderato di un’azione malriuscita, la povera Linda però era stata data, inizialmente, per uccisa dai suoi rapitori.

Il dibattito sulle operazioni militari, che in questi giorni di trattative più o meno sotterranee con questo o quel fronte guerrigliero si intreccia col difficile dipanarsi di un fragile filo negoziale, ha già dimenticato i quattro soldati italiani uccisi da una potente carioca di esplosivo nel Gulistan. Ma l'accesa polemica nel nostro Paese finisce a catapultasi anche qui, se non altro per ricevere un'opinione.

Il ministro La Russa e le opinioni – molto diverse – degli afgani

 

“Un esercito deve combattere. E’ in guerra – argomenta Rafiee Aziz dell’Afghan Civil Society Forum, rete progressista della società  civile afgana – non è qui per fare la pace e dunque un aereo senza bombe…non e’ un aereo. In una guerra devi dare battaglia e non credo che gli afgani facciano poi una gran differenza tra uno Stato e un altro, visto che l’Italia è nella Nato”. Se il cronista può fare una chiosa, tanto per inquadrare gli interlocutori, Aziz fa parte di quel segmento di società modernista, se ci si passa il brutto termine, fieramente antitalebano. Quello che teme che il Paese sia abbandonato al caos. In un caos dove gente come lui, le attiviste femminili o delle Ong, finirebbero al cappio.

Ahmad Fahim Hakim, è invece il numero2  di Sima Samar (già candidata al Nobel per la pace) nella Commissione indipendente per i dritti umani.  Si affida a una risposta  diplomatica: “Le truppe straniere, come quelle nazionali, devono essere ben equipaggiate e in grado di rispondere alla sfide che vengono dai talebani, dagli affiliati ad Al Qaeda o ad altri gruppi radicali. Ma – avverte – noi abbiamo sempre messo in guardia sia le forze nazionali sia quelle internazionali sul dovere di rispettare la popolazione civile e sulla salvaguardia del diritto internazionale in materia di civili. Più volte abbiamo espresso la nostra preoccupazione e pubblicato documenti su quello che è un aspetto fondamentale e cioè i diritti della popolazione civile”.

Agli argomenti di una figura a metà tra istituzione e società civile si aggiungono le risposte ben argomentate di Gran Hewad, analista dell’Afghan Analysts Network, un centro studi autorevole di Kabul: “Prima di tutto dobbiamo dire che non siamo in grado di valutare l’efficacia militare dei bombardamenti. I dati sono  inattendibili e spesso vengono gonfiati  ad arte quale che sia la parte in causa, per diverse ragioni. Quanto siano efficaci dunque, dal punto di vista strettamente militare, è difficile da dire. Punto due – continua Gran – le vittime civili dei raid aerei sono un elemento ineliminabile e ciò ovviamente tende a creare un risentimento diffuso  nella popolazione e di cui la guerriglia approfitta facilmente. Statisticamente, un ciclo di violenza finisce sempre per favorire i talebani: quando c’è  una distruzione sistematica, anche le attività economiche collassano e a guadagnarci, anche in termini di reclutamento, sono i guerriglieri. Punto tre, la guerriglia ha in generale il vantaggio di sapere dove mirare perché ha di fronte delle divise, mentre la coalizione non sa mai dove colpire con esattezza. Nei bombardamenti questo elemento di dubbio diventa ancora più forte”.

E gli italiani? “Gli italiani tutto sommato hanno saputo costruirsi una buona immagine nell’Ovest e non è vero che gli afgani non sappiano fare la differenza tra il cosiddetto modello italiano o quello americano. Gli italiani hanno investito in sviluppo, riabilitato strade o acquedotti conquistandosi in parte la popolazione. E questo, si badi bene, ha un effetto indiretto anche sulla guerriglia che deve comunque fare i conti con la comunità locale. Voglio dire che se la comunità locale riceve un certo benefico da un intervento esterno, cercherà pragmaticamente di tutelarlo, limitando l’intervento della guerriglia. Ora se l’Italia vuole cambiare modello – conclude il ricercatore di Aan – deve sapere che inevitabilmente un’escalation militare significherebbe un aumento di attacchi e, altrettanto inevitabilmente, ciò si tradurrebbe in un aumento delle vittime….in dari diciamo che dar jang halwa taksim namesha, ossia in guerra non si distribuiscono dolcetti. Voglio dire che se si vuole la guerra vera, tutto il resto si perde. Anche anche quello che finora un particolare atteggiamento aveva prodotto”.

Fonte: Lettera22

11 ottobre 2010

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