La bolla di Kabul
Emanuele Giordana - Lettera22
Kabul vive sospesa in una bolla che galleggia sopra la guerra. Una guerra lontana nella città delle trame sottotraccia, parvenza di convivenza civile in una capitale su una linea del fronte che è alle sue porte, appena fuori, qualche chilometro.
Kabul vive sospesa in una bolla che galleggia sopra la guerra. Una guerra lontana nella città delle trame sottotraccia, parvenza di convivenza civile in una capitale su una linea del fronte che è alle sue porte, appena fuori, qualche chilometro. E mentre a Kabul, a Dubai, alle Maldive si fan prove sotterranee di negoziato, il conflitto si estende a macchia d'olio, non solo nel Sud e nell'Est del paese ma, in modo sempre più preoccupante, anche nel Nordest e nel Nordovest.
L'impressione è che i fronti, oltreché numerosi, vadano molto per conto proprio. Con un bilancio di vittime costante. Mentre arrivava la notizia dei soldati italiani ammazzati, altre fanno da contorno: una scozzese di 36anni di una Ong americana uccisa mentre i soccorritori cercavano di sottrarla ai suoi rapitori, a Kunar. E la strage di venerdi alla moschea di un villaggio vicino a Kunduz, dove un'esplosione si è portati via, col governatore, anche venti poveracci che pregavano Allah. Si indica Hekmatyar, in questo caso. Per la vicenda di Kunar chi sa chi c'è dietro.
Banditi? La filiera degli Haqqani, la potente banda talebana “spuria”, vicina ai qaedisti? La più violenta, accusata degli assalti al Serena, alla Guest House dell'Onu, allo stesso presidente. Proprio gli Haqqani, dicono qui, sono più calmi da un po': otto-nove mesi che non fanno azioni eclatanti. “Forse c'è un accordo tra il governo e i pachistani per fare pressione su di loro”, suggerisce un amico giornalista che dirige un'agenzia di stampa locale. Intanto, nella città sospesa, si riesce ad andare ai giardini di Babur a passeggio. A gustare pannocchie arrostite che hanno sostituito, sul far dell'autunno, i meloni e le mandorle sgusciate. Ma l'atmosfera resta tesa ed è difficile ignorare che tutto intorno la morte continua a lavorare. Nel silenzioso ospedale di Emergency i numeri della gente in cura parlano da soli: l'80% delle persone ferite che arrivano al nosocomio hanno i segni di qualche rissa, coltellate di parenti, faide famigliari. Il restante, ferite da guerra vere e proprie, è tutta gente che viene da altre province. Diverso, ci spiega Claudio Gatti, se si guarda cosa racconta l'ospedale di Lashkargah: feriti da arma da fuoco, schegge, mine messe lungo la strada. “Non c'erano mine in quella zona quando aprimmo il nosocomio. Ma adesso….”, commenta un medico. I dati del sistema di sicurezza locale delle Ong internazionali dà invece i dati sulla valle del Gulistan, teatro della mattanza che ha coinvolto gli italiani. Dicono che nel 2010 gli “Ied”, le bombe “sporche” appoggiate sul ciglio della strada, sono aumentate e che il 90% di questi attentati ha riguardato i militari. Quest'anno però, per la prima volta, un Ied ha ucciso tre civili il 29 agosto. Conclude la fonte che gli attentati ai soldati finiscono comunque per avere un “effetto collaterale” sui civili. Fuori dalla conta delle vittime, dalle ipotesi sui mandanti e gli esecutori, lontana dalla guerra, la capitale intanto vive una seconda vita sotto traccia. La stampa americana ha rilanciato una pista saudita che avrebbe luce verde da mullah Omar, il capo storico dei talebani. La stampa britannica e quella araba hanno invece dato per possibile un negoziato, separato, con il gruppo della famiglia Haqqani. Altre fonti locali, come dicevamo, ci confermano la voce. Poi, come è noto, ci sono stati contatti più che ufficiali con gli emissari di Hekmatyar, signore della guerra che controlla parte dell'Est e del Nord. Nella capitale, nei giorni scorsi e continuando a cambiare albergo, si è fatta viva invece una delegazione “non ufficiale” del Pakistan, il Paese che vorrebbe guidare il negoziato per essere sicuro di controllarlo. In pista dunque ci sono due grandi padrini: pachistani e sauditi. I primi cominciano a temere che la bomba talebana, già deflagrata in casa, vada fuori controllo e danneggi anche Islamabad. I secondi temono l'instabilità dei due paesi dove bivaccano e guerreggiano i jihadisti che equiparano Riad a Washington. Speranze dunque? Presto per dirlo. Temiamo che a chiederlo a quel bambino smoccolento col vestitino sudicio, condannato – come altri 4mila – a elemosinare nel centro della città, risponderebbe che di questa parola ha perso il suono. E soprattutto il senso.
Fonte: Lettera22
10 ottobre 2010