Io, Abuna Manuel, parroco di Gaza
Peace Reporter
Palestinese, prete cristiano, ha vissuto per 14 anni nella Striscia. Ora ha scritto un libro nel quale parla di Palestina, Israele e Pace.
Abuna Manuel non è solo un prete palestinese con la Palestina, la sua terra, la sua passione, in ogni cellula della sua imponente struttura. È anche un uomo di chiesa che non ha peli sulla lingua, come si capisce leggendo la sua conversazione con don Nandino Capovilla raccolta nel libro Un parroco all'inferno, pubblicato nel 2009 dopo il massacro di Piombo Fuso. Va dritto al cuore senza giri di parole, abuna Manuel, anche negli incontri e nelle interviste in cui ritorna, con la mente e con i racconti, nella sua Gaza, dove è stato parroco per 14 anni, vivendone in prima persona le sofferenze, le lotte, le contraddizioni, specie negli ultimi 4 anni di assedio e durante Piombo Fuso. La sua Gaza, dove oggi la comunità cristiana si trova senza una guida perché il suo sostituto, Jorge Hernandez, argentino di 34 anni, "non ha le caratteristiche per stare a Gaza, dove c'è bisogno di un prete palestinese, che conosca profondamente le questioni legate alla sua terra, mentre questo prete- valuta con amarezza abuna Manuel, "sa poco di Palestina, sa poco di Israele, sa poco della lotta del nostro popolo e sa poco perfino l'arabo". In questa sostituzione il Patriarcato "ha commesso un grosso errore, che sfiora il peccato, dimostrando di voler separare la chiesa dalla gente, di volerla tenere lontana dalla lotta, compiendo un crimine contro i Palestinesi. Una chiesa assente dalla lotta per la pace, per i diritti umani, per la difesa dei deboli e degli innocenti, per la giustizia, è una chiesa che ha perso la sua funzione, il significato stesso della sua esistenza".
Abuna Manuel si rammarica anche dell'immagine falsata che il nuovo parroco tratteggia della comunità cristiana di Gaza, dei suoi rapporti con i musulmani e con il governo di Hamas: "non è vero che i cristiani di Gaza sono perseguitati o discriminati a causa della loro fede: in parlamento abbiamo un rappresentante, 5 nell'ufficio di presidenza, e, per quel che riguarda il mondo del lavoro, secondo statistiche del 2006, la nostra piccola comunità (su un milione e mezzo di persone i cristiani sono circa 3000, di cui 206 cattolici e il resto ortodossi) vede il 40% delle donne con un lavoro, una cinquantina di persone nell'insegnamento, un centinaio nel commercio, 21 ingegneri e perfino una donna giudice. Non è vero che ai cristiani vengono negati posti di lavoro, che del resto non ci sono per nessuno, in quanto cristiani, sono loro che si rifiutano di lavorare: per esempio nelle scuole del patriarcato avevamo bisogno di 20 donne o uomini per fare le pulizie e nessun cristiano ha voluto farlo".
Per quel che riguarda i rapporti con Hamas abuna Manuel sostiene di conoscere personalità politiche importanti che dopo Piombo Fuso lo hanno ringraziato per il sostegno della comunità cristiana e che, quando hanno saputo che avrebbe lasciato Gaza, gli hanno garantito di "essere pronti a prendere in mano le armi per difendere i cristiani". Certo, il cambio di guida alla comunità ha creato dei problemi perché "il mio successore all'inizio non si faceva contattare, ho dovuto cercare di combinare io un incontro da qui, da Birzeit – il paese natale nei pressi di Ramallah in cui si è trasferito dopo l'uscita da Gaza. "Hamas mi ha perfino chiesto di tornare a Gaza, perché vuole che ci sia una forte presenza cristiana – aggiunge – mi è stato detto che quando c'ero io i cristiani sembravano addirittura essere la maggioranza della popolazione per tutte le attività che organizzavamo: oltre alla scuola si svolgevano incontri, si tenevano molti scambi culturali e interreligiosi: sotto ramadan per esempio festeggiavamo assieme. Incoraggiavo i fedeli a prendersi cura dei bambini, dei poveri, senza guardare se erano cristiani o musulmani. Molti musulmani chiedevano di me, la chiesa era davvero presente tra le gente di Gaza".
L'amarezza per aver lasciato la sua gente in mano ad una guida non all'altezza non oscura tuttavia la speranza insita ancora in quest'uomo, nonostante tutto: "Ora Israele è forte ma non può dominare per sempre. La storia dimostra che una nazione non può essere sempre occupante: lo hanno imparato gli Stati Uniti in Vietnam e in Iraq… La gente di Gaza resiste, lo ha fatto in 4 anni di assedio, sono gli occupanti che se ne andranno".
Infine è d'obbligo una valutazione sulla ripresa dei colloqui tra Israeliani e Autorità Palestinese: "Come ogni volta che ci sono stati colloqui dobbiamo avere paura, perché sono momenti difficili, possiamo commettere tanti errori che noi paghiamo sempre cari, mentre Israele può permettersi di fare errori senza pagarli. Quindi dobbiamo temere, senza però non farci spaventare". Partecipare dunque, ma con ben poche speranze nell'efficacia di questo ennesimo incontro dove "non si affronteranno le questioni essenziali, ma solo gli effetti, e quindi temo che sarà un'occasione ancora una volta inutile" ammette abuna Manuel. "Bisognerebbe parlare dell'occupazione, dei confini di Israele, della situazione di Gerusalemme, delle colonie, del diritto al ritorno, del diritto all'acqua. Se non si parla di questo si parlerà della luna. Il punto è che se si affrontano i punti essenziali si hanno poche alternative: se si parla di occupazione non c'è altro da dire che Israele se ne deve andare. Israele non ci riconosce come popolo, non ci riconosce un'identità, quindi nega il nostro diritto ad esistere. Parlano di pace, di sicurezza e di giustizia ma solo per loro. Israele è il solo paese al mondo e nella storia ad essere riconosciuto come stato pur non avendo dei confini precisi. In questi incontri noi palestinesi dovremmo avere una linea, una direzione, un piano, che invece non abbiamo e quindi restiamo nel vago. Comunque Israele può stare certo che i palestinesi non si arrenderanno: è ora che accetti le decisioni dell'Onu e la pace, ma se non accettano le questioni essenziali possiamo parlare ancora per altri dieci anni senza arrivare a nulla".
Un risultato questi incontri lo hanno tuttavia già ottenuto: bloccare ancora una volta il difficile dialogo tra Hamas e Fatah, la cui ripresa era in programma ma che è stata annullata proprio a causa della partecipazione dell'Autorità al meeting del 2 settembre, cui Hamas si è opposto fortemente ritenendolo inutile. Eppure abuna Manuel crede nella possibilità di un riavvicinamento che "ci può essere in ogni momento, sebbene non sia imminente: i palestinesi non possono essere divisi troppo a lungo. Ramallah deve cambiare il suo atteggiamento: da anni parla con Israele senza ottenere nulla, e ora Abu Mazen è in un angolo; è chiaro che la gente sostiene di più Hamas perché lotta contro l'occupante. Israele può fare la pace con Fatah ma non con Hamas, il quale a sua volta non ha la forza di danneggiare militarmente Israele, non ne ha le possibilità materiali. Siamo divisi ma possiamo trovare dei principi comuni tra noi, come il chiaro no all'occupazione". Insomma, conclude in una battuta questo prete battagliero, "se Israele si rifiuta di darci giustizia noi rifiuteremo di dargli pace".
Fonte: PeaceReporter
23 settembre 2010