Per una terra libera dalla ‘ndrangheta


Chiara Spagnolo


Un urlo corale: “No ‘drangheta”. Oggi 25 settembre tutti a Reggio Calabria.


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Per una terra libera dalla 'ndrangheta

La Calabria è pronta a scendere in piazza per far sentire al Mondo le sue grida di dolore. È una terra che sta morendo, questo lembo di Paradiso in fondo allo Stivale, che sabato 25 proverà a unire le sue mille voci per rivendicare il diritto ad un futuro diverso. Libero dalla ‘ndrangheta. Futuro da cittadini della Repubblica italiana e non da sudditi di quell’Anti-Stato che, anno dopo anno, sta divorando vivi i calabresi. In quest’autunno appena iniziato, la manifestazione “No ‘ndrangheta”, promossa dal Quotidiano della Calabria e organizzata con il sostegno di sindacati e associazioni, appare come un faro in mezzo alla tempesta.

Una fievole luce nel buio di un momento storico difficilissimo, in cui questa regione sembra essere la prova concreta di una sorta di federalismo al contrario. Qui le leggi dello Stato sembrano un lontano ricordo, lo status di cittadini un’utopia, i diritti un miracolo. Per capire la Calabria bisogna viverci. Esserci ogni giorno. Svegliarsi ogni mattina e vedere la meraviglia dei suoi colori uniformata in un grigio soffocante. Qui tutto è grigio, perché tutto è sempre uguale. Il Mondo corre, noi restiamo fermi al palo. Imprigionati dalle catene che la mafia più potente e ricca del Pianeta riesce ad imporre ad ognuno degli abitanti di questa regione.

Per capire come viviamo basta leggere i dati Istat: Pil, occupazione giovanile, lavoro, sanità, servizi sociali, industrializzazione, turismo, tutela dell’ambiente. Ogni voce ci porta in fondo alle classifiche europee, etichettati come la regione più povera, in cui i soldi dell’UE arrivano e poi scompaiono come per magia. In questa striscia di Appennino stretta tra due mari, milioni ne sono arrivati a non finire nei dieci anni trascorsi dal varo del primo Por. Soldi che avrebbero dovuto creare sviluppo e lavoro e invece hanno ingrossato solo i conti correnti di pochi. Politici e imprenditori, stretti da patti criminali scellerati, che in un decennio hanno succhiato il sangue della Calabria, preparando alle ‘ndrine il terreno fertile su cui costruire la loro azione quotidiana. Perché la ‘ndrangheta non è un’entità astratta ma si nutre e si rigenera succhiando il sangue al territorio. La mafia calabrese è dappertutto. Forte perché ricchissima, coi forzieri riempiti grazie al traffico di droga, di armi, alle estorsioni. E resa sempre più ricca da investimenti milionari fatti in ogni angolo della Terra. Forte, soprattutto, perché protetta. “Legata”, “collusa”, coi poteri legittimi e quindi legittimata anch’essa. “Infiltrata” nei gangli della società civile, fino ai livelli più alti di ogni istituzione. In ogni palazzo di potere, nei Comuni, nelle Province, negli uffici della Regione, e poi nei Tribunali, nelle Procure, tra le forze dell’ordine.

La ‘ndrangheta è un cancro che ha già intaccato gli organi della società calabrese, lasciando ai cittadini lo scheletro di una regione che sembra non avere più la forza di rialzarsi. È una Calabria che con la manifestazione di Reggio vorrebbe dimostrare di essere altra da sé stessa, ma che – passato sabato – rischia di rivedere nello specchio sempre lo stesso volto divorato dal malaffare. Perché il “risveglio delle coscienze” da solo non può bastare. Perché fin quando il lavoro non sarà un diritto ma un favore, non ci potrà essere uguaglianza né democrazia. E se l’azione di governo, per prima, non deciderà di seguire strade di linearità e trasparenza, questa regione non potrà mai pensare di uscire da tunnel in cui è finita.

Qui giù, infatti, legalità è una parola ormai svuotata di ogni significato. Qui si può morire a 12 anni sotto il fuoco di un commando che spara su un campo di calcetto, come è avvenuto a Crotone a Domenico Gabriele. Si può assistere ad un omicidio in spiaggia in una domenica d’agosto, si può vedere attraccare nel porto di Gioia Tauro un container contenente tanto esplosivo da far saltare in aria un’intera città. Qui si può camminare tra le campagne della Piana e vedere i disperati che, dopo la repressione sanguinosa della rivolta di Rosarno, sono tornati a lavorare per pochi euro al giorno vivendo nelle baracche indegne della civiltà. Si può attraversare Platì, oppure San Luca, e sapere che nelle viscere della terra ci sono paesi sotterranei che offrono rifugio ai latitanti. Si possono vedere macchinoni sfrecciare da una cittadina all’altra dell’Aspromonte, e ville svettare su coste a picco sul mare, e immaginare che sono comprati coi soldi della droga o delle estorsioni. Guidare sull’A3 e capire che ogni svincolo, ogni galleria, ogni chilometro di quel calvario è il pane per sfamare una famiglia di affiliati. Qui si può passeggiare in mezzo a boschi di incomparabile bellezza e supporre quali veleni siano stati interrati in quelle lande desolate per poi tornare, assassini, nell’acqua che beviamo e nel cibo che mangiamo. Si possono vedere, nella notte, le fiamme dei negozi bruciati dagli esattori del pizzo, e sentire il boato delle bombe che, da nove mesi a questa parte, inesorabili hanno preso di mira la magistratura di Reggio Calabria.

Si può fingere di non sapere ma è difficile ignorare che solo in Calabria esistono 155 cosche, che l’ala militare della criminalità nostrana è composta da almeno 6000 uomini, che il rapporto affiliati/abitanti tocca il 2,7%. Senza dimenticare il numero più impressionante, ovvero quei 35 milioni di fatturato annuo, (stimati per difetto), che superano di gran lunga il pil dell’intera regione. Tutto questo si può vedere oppure si possono chiudere gli occhi. Si può conoscere o cercare di ignorare. Si può dire oppure tacere. In questa Calabria che brucia, che annaspa, che muore ogni giorno, anche l’informazione può essere complice o guidare la rivolta delle anime. Tanti giornalisti provano a fare il loro dovere e tanti, negli ultimi mesi, sono stati presi di mira dalla ‘ndrangheta, che ha fatto recapitare loro messaggi poco cifrati. L’elenco è lungo e, probabilmente, destinato  a crescere, perché c’è un manipolo di giornalisti convinti che la conoscenza di ciò che accade sia l’unica possibilità affinché i calabresi capiscano e scelgano la via del riscatto. Solo se potremo continuare a sapere che mentre la gente comune annaspa c’è qualcuno che si arricchisce, che mentre elemosiniamo lavoro c’è una politica che su quel mercimonio si rafforza, che mentre pieghiamo la testa  gli uomini delle cosche ridono beffardi, avremo la speranza di capire che stiamo diventando sempre meno cittadini e sempre più schiavi. E solo capendo tutto questo, ammettendolo con noi stessi prima che con l’Italia intera, potremo decidere che il “loro” momento è finito.

 Che la Calabria è nostra, perché ce l’hanno data in nostri padri e qui vogliamo vivere, per consegnarla ai nostri figli. In questa terra bellissima, azzurra come il mare, verde come le pinete, silenziosa come le gole di montagna e allegra come le feste di paese. In questa Calabria che tentano di sottrarci e che ognuno di noi calabresi vuole riprendersi. Partendo da Reggio Calabria, sabato prossimo, e andando avanti – con fatica e sudore – lavorando, scrivendo, parlando, rialzando la testa e riconquistando l’orgoglio di cittadini. Che per vivere non hanno bisogno di favori, mazzette e pistole, ma solo di Stato e diritti.

Fonte: www.liberainformazione.it
24 Settembre 2010

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