Sudafrica; a chi vende le sue armi?
Alberto Tundo
Il rapporto di una ong riaccende il dibattito circa l’opaco export di armi sudafricane e lancia un allarme che non tutti condividono.
Non è vero che il cattivo cliente è quello che non paga. Ci sono ambiti in cui anche chi ha contanti che frusciano è e rimane qualcuno con cui è meglio non avere a che fare. Lo sa bene il Sudafrica, che da qualche settimana è tornato sul banco degli imputati per una questione scottante: il suo export di armi.
La denuncia di Ceasefire. E' questa la denuncia contenuta in un rapporto pubblicato a fine giugno da una ong sudafricana, Ceasefire Campaign. Un dossier fantasma, introvabile in rete e pressochè sconosciuto anche per due delle più importanti organizzazioni che a livello internazionale si occupano dei flussi di armi, lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri, d'ora in avanti) e il Bonn International Center for Conversion (Bicc), nonostante nella nota metodologica i due centri vengano citati come fonti. Peacereporter è riuscita ad avere accesso al documento originale e alla banca dati che è alla base dello stesso studio. Questi i dati salienti. Tra il 2000 ed il 2009, il Sudafrica avrebbe venduto armi per un valore di 13,2 miliardi di rand (1,8 miliardi di dollari circa) a 58 Paesi definiti "problematici", cioè stati che secondo la legge locale, una delle più avanzate, non dovrebbero riceverne perché impegnati in una "repressione interna, nella sistematica violazione e nella repressione dei diritti umani e delle libertà fondamentali", o perché soggetti ad un embargo o coinvolti in un conflitto regionale. Come l'India, che dal Sudafrica ha ricevuto armi per 3,2 miliardi di rand, gli Emirati Arabi Uniti (2,4 miliardi), l'Algeria (1,9), la Colombia (1,1), l'Arabia Saudita (770 milioni). Cinque clienti che secondo la legge sudafricana (National Conventional Arms Control Act, anno 1995) non avrebbero dovuto essere serviti, ma non gli unici: in questi anni, infatti, Pretoria ha fatto affari anche con una miriade di altri stati che Ceaefire definisce problematici, come il Venezuela, Singapore, il Pakistan (al quale ha venduto armi per 400 milioni di rand), la Nigeria, Gibuti, il Ruanda, la Georgia, il Messico e la Cina. L'altro dato preoccupante, secondo l'ong, sarebbe la percentuale di armi "delicate" sul totale esportato, pari al 60 per cento: per armi delicate si intendono "quelle convenzionali usate prevalentemente nelle guerre e tali da poter causare gravi perdite", una categoria che comprende caccia, carrarmati, sottomarini e artiglieria pesante.
Un problema di definizione. Il tema dell'export sudafricano a dire il vero non è nuovo: nel settembre dell'anno scorso l'Institute for Security Studies aveva pubblicato un rapporto intitolato "The enigma of South Africa's Arms Trade". L'allarme però va ridimensionato. "Volendo applicare gli stessi criteri – ha spiegato a Peacereporter una qualificata fonte del Sipri – tra i Paesi problematici rientrerebbero anche gli Stati Uniti, in quanto potenza che ha destabilizzato una regione, invaso l'Iraq, violato le convenzioni sulla condotta della guerra, oppure Israele il cui rispetto dei diritti umani è quantomeno discutibile, perché occupa illegalmente dei territori ed è una delle cause dell'instabilità della regione". L'export di armi sudafricano sarà opaco ma è di fatto una goccia nel mare. Ammonta a poco più di 32 miliardi di rand, secondo i dati in possesso del Sipri e, azzardando un'ipotesi sull'export del 2005, anno sul quale non si hanno informazioni, si arriva a 34 miliardi di rand, cioè a 4,5 miliardi di dollari. Un granello di polvere, rispetto ai 155 miliardi di dollari di armi esportate dagli Usa tra il 2000 e il 2008 (pari al 41 per cento del commercio mondiale). E i Paesi indicati da Ceasefire come la pietra dello scandalo sudafricano sono, guarda caso, proprio partner strategici imprescindibili per Washington.
La commissione fantasma. Ragionando sugli elementi a disposizione, però, emergono due questioni sulle quali riflettere. Innanzitutto, la crescita esponenziale del valore dell'export di armi sudafricano. Secondo quanto ricostruito dal Sipri, in dieci anni sarebbe passato dai 1315 milioni di rand del 2000 ai 7812 del 2009. Un aumento costante che, in spregio a qualsiasi relazione con i trend economici, dimostra ancora una volta che il mercato delle armi si autoalimenta. La seconda riguarda il comportamento dell'organo parlamentare che avrebbe dovuto vigilare sul rispetto del National Conventional Arms Control Act, e cioè il National Convetional Arms Control Committee (Ncacc), chiamato a certificare la trasparenza di ogni contratto e verificare la destinazione e l'impiego delle armi. Un organo che ha ripetutamente abdicato alla sua missione, secretando le relazioni annuali che avrebbero dovuto essere pubbliche e disponibili entro il primo trimestre dell'anno successivo (sezione 23, articolo 1 comma c della legge), tanto che quelle relative agli anni tra il 2005 e il 2007 sono scomparse. Altre volte i dati sono di difficile interpretazione (ad esempio, nel rapporto 2008 si parla di un trasferimento "temporaneo" di armi allo Zimbabwe, sull'orlo di una guerra civile, per un valore di 123 milioni di rand, ma non si spiega cosa voglia dire né quando le armi sarebbero rientrate), parziali e poco comprensibili. Il Ncacc a partire dal 2007 ha cessato, de facto, di esistere, per essere sostituito dal Dipartimento della Difesa, dai cui uffici sarebbero partite le autorizzazioni per ogni contratto. Procedure d'urgenza che sotituiscono quelle di controllo standard, scarsa trsparenza in un settore delicato come quello degli armamenti: la vera questione sudafricana è tutta qua. E poi ci sono contratti che non compaiono nei report ma risultano invece nei bilanci delle principali società dell'industria bellica locale, un arcipelago di 95 compagnie tra le quali spiccano la Denel, Reunert Defense Logistics, Land Systems Omc, sussiadiaria della britannica Bae. Già lo scorso febbraio un rapporto curato dal General Auditor aveva posto il problema delle procedure di controllo sull'export di armi. Il documento menzionava 58 contratti con 26 Paesi non in possesso dei requisiti previsti dalla legge e faceva riferimento ad almeno 17 casi in cui non erano stati recuperati i certificati di consegna: insomma, in quei casi la destinazione risultava ignota. Uno dei sospetti che è che questa opacità sia servita a colossi in crisi, come la parastatale Denel, a recuperare quote di mercato, vendendo armi a stati che hanno difficoltà ad importarne.
Si tratta di un problema di trasparenza in un settore estremamente delicato. Una questione sudafricana ma non solo, sulla quale bisognerebbe interrogarsi di più.
Fonte: Peacereporter, disarmo.org
21 agosto 2010