Avraham Burg: «Liberarsi dalla sindrome di Stoccolma»
La redazione della Marcia
Dalle nuove generazioni potrà nascere un sentimento di fiducia nell’altro che aiuti a costruire una pace vera.
È un appello alla sanità mentale dei due popoli, israeliano e palestinese, quello che fa Avraham Burg: «La maggior parte della gente non vuole la guerra, è a favore della pace e del dialogo, ma le minoranze hanno conquistato i cuori. Israele è ormai ostaggio dei coloni, mentre la Palestina è stata sequestrata da Hamas. Le due società stanno vivendo la sindrome di Stoccolma e si sono innamorate del proprio sequestratore».
Una posizione coraggiosa, che auspica un’empatia tra israeliani e palestinesi per porre le basi di una società migliore. Burg, parlamentare laburista, già speaker della Knesset dal 1999 al 2003, fornisce un punto di vista soggettivo e personale nella definizione del conflitto israelo-palestinese, che nel corso degli anni ha assunto una dimensione sempre maggiore e la cui soluzione è sempre più urgente, e oggi rischia di diventare una minaccia per il mondo intero.
«La soluzione del conflitto può essere data solo dal riconoscimento dei due stati secondo i confini del 1967, dal trovare una soluzione per i rifugiati, per i luoghi santi e dalla divisione di Gerusalemme. Ci deve essere un blocco psicologico che impedisce di attuare questa soluzione del conflitto». Da entrambe le parti sono stati commessi errori e passi falsi, mancando preziose occasioni per un reale processo di pace. In aggiunta a questo si devono fare i conti anche con il lascito delle pessime politiche europee del ventesimo secolo, che non hanno mai fatto sufficienti pressioni perché venisse posta in atto una reale soluzione e hanno alimentato la competizione sul piano del dolore.
È come se i due popoli stessere vivendo una continua gara a chi ha subìto il trauma peggiore. Gli israeliani con l’Olocausto hanno un bagaglio di storia estremamente pesante che pesa sulle loro spalle, e da parte sua il popolo palestinese non riesce a superare il dolore della Nakba. Non è un invito a spogliarsi della propria storia, del proprio passato, delle proprie sofferenze, ma occorre mettersi in atteggiamento di ascolto, per conoscere e rispettare le paure e le difficoltà che hanno segnato la vita dell’altro popolo. La speranza e la fiducia possono venire solo dalle nuove generazioni, affinchè non si corra il rischio di ricadere nei vecchi meccanismi della politica».
Oggi più che mai è necessario cambiare la prospettiva, assumendo una rinnovata strategia nazionale per entrambi i popoli, che li liberi dalle ideologie di minoranza che hanno insidiato e sedotto il desiderio di pace. «I politici devono essere in grado di parlare la lingua di entrambi i popoli, per potersi mettere in ascolto delle loro istanze e non imporre dall’alto delle soluzioni. Oggi le due società si muovono su binari paralleli: guerra o pace. Sono necessari nuovi concetti che si pongano a metà tra le due alternative e una strategia nazionale rinnovata incentrata su un senso di fiducia».
Perugia, Palazzo dei Priori
15 maggio 2010