C’era una volta lo “stato modello”
il Manifesto
La situazione nel remoto Kirghizstan, percorso da un’ondata di violenza inaudita, ha già provocato almeno un centinaio di morti…
La situazione nel remoto Kirghizstan, percorso da un'ondata di violenza inaudita che avrebbe già provocato almeno un centinaio di morti, è troppo caotica e confusa per capire se ci sia o no un'ispirazione politica precisa dietro le migliaia di dimostranti che ieri hanno dato l'assalto agli edifici del potere. Il governo accusa l'opposizione e «forze straniere» di aver scatenato una rivolta; l'opposizione accusa il governo di aver scatenato un massacro e lancia appelli ai dimostranti perché rientrino nelle case – ma già parla di presa del potere; le due grandi potenze che hanno basi militari nel paese – Russia e Usa – si mostrano entrambe preoccupate e chiedono all'unisono al governo di «mostrare moderazione», così come fanno l'Onu e le organizzazioni per i diritti umani.
Bisognerà probabilmente aspettare che la violenza finisca per capire chi ha giocato la carta del massacro e con quali obiettivi. Ma intanto una cosa si può dire senza sbagliare ed è che il regime di Kurmanbek Bakiyev, dal momento in cui si è installato al potere nel marzo 2005 dopo una serie di rivolte popolari (la cosiddetta «rivoluzione dei tulipani», molto rassomigliante per certi aspetti alle «rivoluzioni colorate» filoamericane svoltesi in precedenza in Georgia e in Ucraina), è andato progressivamente trasformandosi in una dittatura personale molto rigida. Le libertà fondamentali che avevano caratterizzato la vita politica e sociale del paese sotto il presidente Askar Akayev sono state via via ristrette fin quasi ad annullarsi, i media «fuori linea» o semplicemente indipendenti sono stati sistematicamente censurati e poi chiusi, parecchi esponenti dell'opposizione messi a tacere con metodi che vanno dalle minacce all'eliminazione fisica. Contemporaneamente le istituzioni nazionali sono state occupate dai familiari e dagli amici del presidente, il parlamento ridotto a una congrega di ubbidienti servitori, le autorità locali trasformate in docili agenti del capo, della sua famiglia e del suo clan.
In questo modo, quello che fra il 1991 e il 2005 era stato – per gli standard centroasiatici e certo con un bel po' di contraddizioni e «macchie» – un esempio di democrazia e libertà è andato via via uniformandosi ai modelli politici dei paesi circostanti: Uzbekistan, Tagikistan, Kazakhstan – per non dir della Cina. Una scelta incoraggiata certamente dall'esterno: varie volte, negli anni precedenti, dittatori feroci come l'uzbeko Islam Karimov avevano lamentato la presenza di un «elemento anomalo» nella regione, considerato minaccioso in quanto propenso ad accogliere e a dar rifugio agli esuli politici dei paesi vicini…
Non si tratta solo di un'involuzione politica. La trasformazione da democrazia (sia pure sui generis) a regime dittatoriale ha comportato anche dei costi economici pesanti che si sono inevitabilmente ripercossi sulla maggioranza «debole» della popolazione. In un paese praticamente privo di risorse naturali, meno libertà personale e meno democrazia ha voluto dire meno affari, meno commerci, meno presenza di stranieri. Un sistema di media particolarmente sviluppato e fiorente è stato schiantato; non ci sono più stati convegni e conferenze internazionali; la corruzione è dilagata in tutti i settori dell'economia. Le uniche «risorse» del Kirghizstan messe a frutto da Bakiyev sono state le basi militari concesse a Russia e Usa in cambio di denaro andato a finire tutto o quasi nelle sue tasche, mentre anche le rimesse degli emigrati in Russia e in Cina, che fino al 2008 costituivano una delle maggiori componenti del Pil nazionale, sono crollate con la crisi globale. Se tutto questo sia bastato a scatenare una rivolta o se invece ci siano state anche altre spinte – rivalità di clan, tensioni religiose o altro – è forse ancora troppo presto per dirlo.
Fonte: ilManifesto
8 aprile 2010