Fao: la domanda di carne cresce in modo insostenibile


Susan Dabbous


La Fao presenta il rapporto annuale sullo stato dell’agricoltura e dell’allevamento. Triplica la richiesta di prodotti proteici, trainata dai Paesi in via di sviluppo, ma non diminuisce la malnutrizione.


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Fao: la domanda di carne cresce in modo insostenibile

Seppure 4 miliardi di persone nel mondo continuano a soffrire di carenza di ferro, cala il consumo dei cereali e aumenta in modo esponenziale quello delle uova e della carne, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. A scattare la contraddittoria fotografia è il rapporto annuale sullo stato dell’agricoltura della Fao, l’organizzazione della Nazioni Unite delegata alle politiche alimentari. Si chiama Sofa (dall’inglese: State of the food and agricolture) la pubblicazione più importante dell’imponente, ma purtroppo poco efficace, organismo internazionale che quest’anno si focalizza soprattutto sulle emergenze che il pianeta dovrà affrontare in vista di un incremento sregolato dell’allevamento intensivo. Il 26 per cento della superficie terrestre è già occupata dagli allevamenti, che, a loro volta, insistono sul’35 per cento dei campi agricoli. Mai come oggi è forse il caso di chiedersi come conciliare geografia e demografia.

 

Già perché se attualmente siamo 6 miliardi di abitanti sulla Terra, in base alla crescita costante della popolazione servirà produrre almeno il 20 per cento di carne in più entro i prossimi 8 anni per poi arrivare ad un 50 per cento entro il 2050, data in cui avremo raggiunto quota 9 miliardi. Considerando la totale assenza di politiche demografiche è difficile immaginare che la stima non venga raggiunta se non superata.  Oltre all’incremento demografico, a influire sulla maggiore domanda di carne e prodotti lattieri ci saranno l’aumento dei redditi e l’ urbanizzazione nei Paesi in via di sviluppo. Secondo le proiezioni, per soddisfare queste nuove richieste, la produzione mondiale annua di carne dovrebbe più che raddoppiare passando dagli attuali 228 milioni di tonnellate a ben 463 milioni entro il 2050.
 
Così la popolazione bovina  passerà dagli attuali 1,5 miliardi di capi a 2,6 miliardi, mentre quella ovina e caprina aumenterà da 1,7 a 2,7 miliardi di esemplari. Dietro ai numeri bisogna fare lo sforzo di immaginare anche la portata rivoluzionaria e sconvolgente che questi hanno sia sugli ecosistemi che sull’economia mondiale. Iniziamo da quest’ultima: è innegabile che per pochi, pochissimi, soggetti economici stanno per arrivare enormi benefici, parliamo dei produttori su larga scala, perché i piccoli allevatori non solo non riescono a competere con i prezzi al dettaglio imposti dalle multinazionali, ma spesso non possono neanche accedere ai mercati locali per mancanza di rete infrastrutturali adeguate.
 
Come fare allora ad entrare nel business del bestiame, che, secondo la Fao è quello che registra la crescita più rapida rappresentando il 40 per cento dell’intera produzione agricola? «Esistono dei programmi per lo sviluppo delle economie locali – spiega il segretario generale della Fao, Jacques Diouf – che fanno affidamento principalmente sulle donne». Poiché queste, in molti Paesi poveri e in via di sviluppo, non solo fanno un uso più parsimonioso delle proprie risorse, ma in assenza dei mariti che lavorano, l’animale diventa l’unico mezzo di sussistenza per loro stesse e per i figli. Sono almeno un miliardo le persone la cui esistenza dipende direttamente da un capo d’allevamento.Come se non bastasse è proprio su di loro che si abbatte il peso maggiore delle malattie di derivazione animale (aviaria,  virus A-H1N1, e così via).
 
Senza dimenticare poi gli effetti che i cambiamenti climatici hanno sia sull’agricoltura che sul bestiame: l’aumento dell’intensità delle piogge in India e la siccità in Argentina, gli esempi più eclatanti. «Visto che non possiamo intervenire sui cambiamenti climatici – spiega Modibo Traeré, vicedirettore Fao del dipartimento Agricoltura e protezione del consumatore – l’unica cosa da fare è adattare le razze animali a questi ultimi». In altre parole «così come non si può chiedere a una mucca olandese di produrre la stessa quantità di latte in un Paese tropicale (a parità di alimentazione) non si può immaginare che l’aumento della temperatura terrestre non provochi dei cambiamenti della produzione dei derivati animali, così come dei vegetali». L’agricoltura dal canto suo ha un grande impatto sul global warming. Questo settore infatti produce il 18 per cento dei gas a effetto serra, «ma – specifica Traeré – non è l’attività in sé ad inquinare, bensì l’uso intensivo che ne fa l’uomo». 

Fonte: terranews.it
19 Febbraio 2010

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