Operation Moshtarak, colpire nell’Helmand


Emanuele Giordana - Lettera22


E’ il tentativo di dare una svolta non solo militare alla campagna afgana: un “test” per misurare se una nuova strategia è possibile e se la chiave scelta


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Operation Moshtarak, colpire nell'Helmand

“Abbiamo preso Marjah”. E' contento il ministro della Difesa afghano, generale Abdul Rahim Wardak. “Ci sono stati scontri sporadici e qualche resistenza – aggiunge – ma andiamo avanti, pur se lentamente, visto che i talebani hanno disseminato la zona di mine ed ordigni esplosivi”. Commento a caldo su un'operazione ancora in corso e cominciata in un freddo mattino nella regione meridionale dell'Helmand.
Quando l'assalto è iniziato erano da poco passate le due di notte di sabato. La maggior operazione dal 2001, nome in codice Operation Moshtarak (“insieme” in dari), è il tentativo di dare una svolta non solo militare alla campagna afgana: un “test” per misurare se una nuova strategia è possibile e se la chiave scelta – una miscela di nuove tattiche militari e civili – è in grado di funzionare. I numeri sui morti e i feriti sono ancora incerti come incerto resterà almeno per un po' il bilancio delle vittime civili di un'operazione in cui si sarebbe dovuto far tesoro della massima aurea enunciata qualche giorno fa dal comandante in capo di Isaf, generale Stanley McChrystal: “Il nostro modello non è Falluja”.
L'offensiva, annunciata da un tam tam mediatico di una settimana e da uno di bombardamenti in loco associati a volantini che invitavano la popolazione civile a stare al riparo, ha impiegato circa 15mila soldati, di cui il 60% afgani. Gli americani avrebbero messo a disposizione 3500 marine e i britannici 2mila oltre a più piccoli contingenti Isaf di canadesi, danesi ed estoni. L'esercito afgano avrebbe utilizzato oltre ai soldati, la polizia di frontiera e della Gendarmeria e ci sarebbero infine quasi 2mila poliziotti che dovrebbero essere impegnati nelle fasi “3” e “4”, quelle del consolidamento delle posizioni. La strategia Nato è chiara e si articola su quattro passi: shape (preparazione, cioè i bombardamenti preventivi), clear (ripulire ovvero la fase attuale, relativamente “semplice” vista la capacità di risorse umane e tecniche), hold (tenere la posizione ), build infine (ricostruire). Sta infatti soprattutto nella capacità di non abbandonare le pozioni conquistate la vera chiave del successo di Moshtarak. Ciò significa, nella nuova strategia Nato (il cui ribaltamento si deve a McChrystal), “tenere” i posti conquistati, ossia trasferire lo “Stato” da Kabul al distretto di Marjah, ritenuto un “fortino” dei talebani e una delle piazze principali della coltivazione dell'oppio, linfa vitale e finanziaria della guerriglia.

Ma già gli scettici (occidentali) mettono le mani avanti: come si può sperare che da un governo in odore di corruzione spiri l'afflato di buon governo così necessario al Sud del paese? Gli afgani polemizzano invece su un altro versante: Jamil Karzai (il cui cognome tradisce l'importante parentela), a capo della Commissione del governo afgano per la sicurezza nazionale, ha contestato l'eccessiva enfasi posta sull'annuncio dell'offensiva che avrebbe dunque favorito i talebani. E ha criticato il modo di condurre la battaglia, con gli afgani nelle retrovie: “se sono le forze internazionali a guidare e l'esercito nazionale a stare in seconda fila, non vinceremo mai questa guerra”. Orgoglio nazionale con un misto di pragmatismo poiché, dice Jamil, sono gli afgani e non certo i marine a conoscere il terreno e il territorio.
La parte militare, nonostante kamikaze e ordigni sulle strade (Ied), dovrebbe infatti concludersi facilmente col successo rivendicato già ieri dal generale Nick Carter, comandante delle forze Nato nel Sud. Le stime dicono che nella zona albergherebbero tra i 500 e i mille talebani, coadiuvati da un manipolo di “stranieri” (la guerriglia rivendica 2mila combattenti). Non molti in ogni caso per resistere all'urto di 15mila soldati con aerei e mezzi pesanti. (un comandante talebano ha detto di essersi ritirato per “evitare vittime tra i civili”). Ma il problema arriva sempre dopo.
Quanti soldati potranno rimanere? Basteranno 2mila poliziotti e qualche fortino militare, seppur sostenuto dalla Nato, per riorganizzare la vita civile di Marjah? E infine, Marjah, seppur fortemente simbolico, è solo un distretto (125mila abitanti) in un'area popolata da oltre un milione di afgani (nell'Helmand vivono 800mila perosne su 58.584 kmq; nel Kandahar circa 450mila) . Una scommessa da vincere sul piano della governance e della ricostruzione, assai più della battaglia militare in se'. I talebani lo sanno. Un loro portavoce ha detto ad Al Jazeera che la guerriglia resisterà: “Se avete bisogno di 14mila soldati per prendere un piccolo villaggio, come farete a prendere l'intera provincia sotto mano talebana”?
La scommessa è grossa e si gioca su almeno tre fronti: quello puramente militare, quello civile (la famosa conquista di cuori e menti) e quello dell'opinione pubblica occidentale, sufficientemente distratta ma sempre disposta a chiedersi – come ricordava ieri El Pais – quali sono i risultati dopo otto anni di guerra in Afghanistan. L'operazione “Insieme” ha dunque l'obiettivo di rispondere su tutti e tre i versanti. Un imperativo che discende dalla Conferenza di Londra, tenutasi alla vigilia della grande offensiva.

Il vertice in Gran Bretagna ha promesso una svolta: benché Londra avesse inizialmente pensato di incentrare il dibattito soprattutto sull'aspetto “sicurezza”, il summit ha partorito una nuova promessa: la strada della riconciliazione nazionale, la prima partita da aprire dopo aver mostrato i muscoli. Ma ha anche messo l'accento sulla “transizione”, parola che gioca su due aspetti: disimpegno militare e quindi rientro un po' alla volta dei soldati Nato, e presa in carico della guerra (e della pace) da parte di Kabul. Naturalmente con risorse adeguate: dal fondo nazionale per garantire ai guerriglieri che lasciano la lotta armata un rientro morbido nella società, ai quattrini per lo sviluppo, quel che più manca al paese asiatico. Qualche giorno fa a Roma, in un seminario organizzato dall'Osservatorio “Argo”, l'ambasciatore Ettore Sequi, plenipotenziario Ue a Kabul, ha detto che da Londra sono uscite due notizie. Una cattiva e una buona. La cattiva è che si sono dette in ritardo le cose necessarie. La buona è finalmente ci siamo resi conto che andavano dette.

Fonte: Lettera22 e Il Riformista

14 febbraio 2010

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